Premi Hugo e Nebula

In realtà più che una presa per i fondelli sembra un omaggio ai trekkie - e ai nerd in generale - visto il ruolo decisivo di uno di loro nel lieto fine.

anche non so - era una burla spaziale tutto quanto

2001

Vince il premio Hugo per il migliore romanzo

Il premio Nebula al migliore romanzo va invece a

Riassumendo: l’Hugo non premia un’opera di fantascienza; il Nebula, per trovare qualcosa, recupera quello che era l’ultimo arrivato nella cinquina della scorsa edizione dell’Hugo. Insomma, brutto momento, no? Ma vediamo.
Il vincente l’Hugo è un bel librone di oltre 600 pagine. E’ il quarto della celeberrima serie di Harry Potter, ancora con il suo prezzo in lire e in euro, come andava di moda a inizio secolo. Nella terza di copertina, tra l’altro, si annuncia che a breve dovrebbe uscire il film tratto dal primo libro. Il resto è storia, si dice in questi casi.
Non avevo mai letto un Harry Potter, anche se mi sono visto al completo la saga cinematografica. E’, in tutta onestà, come lo immaginavo: fluidissimo come lettura, stile piacevole, ma rimane un libro per ragazzi. Non so se questo libro in particolare sia indicativo di tutta la serie; mi sento di dire però che è ben difficile che un adulto si possa appassionare a questa opera. Perché quando Harry e Ron si guardano in classe e cercano di non ridere, il motivo dell’ilarità è sempre una stronzata, adultamente parlando. Chiaro, mi ricordo anche io quando da ragazzino si soffocavano le risate a scuola e si diventava tutti rossi, ma di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. E l’esempio che ho portato è descrittivo dell’intero clima del libro: tante, tantissime situazioni in cui ogni ragazzino troverà modo di sognare ad occhi aperti, ma che ad adulti senza pietà, cinici e scafati come voi e me (me soprattutto) non dicono tanto, anzi, dicono che sono ragazzate. Ad infierire, si può dire che tutto è semplice, banale, che non c’è il minimo approfondimento psicologico, che lo stile è sì fluido e comodo da leggere, ma superficiale, e così via. La realtà è una: una buona lettura per ragazzi, i quali ne saranno rimasti presissimi, e comprensibilmente.
Questo episodio in particolare narra la sfida tra campioni di varie scuole di magia, e di come Harry Potter ci sia finito dentro, pure non avendo i requisiti per partecipare. E di un finale tra il drammatico e il tragico. In effetti il libro acquista interesse proprio in quei momenti: quando cioè i personaggi adulti interagiscono tra loro. Questo il mio pensiero; magari non si dovrebbe forse criticare così un libro o una saga che è stata venduta in tutto il mondo con numeri pazzeschi, ma qualcosa va detto. Un voto….boh, forse un 7, nel suo genere rimane una buona lettura, ma che un libro così vinca l’Hugo, mah, si penserebbe a un mondo all’incontrario. E altro sul maghetto non ho da dire. Se non che l’autrice non era alla premiazione, non mandò nessun al suo posto, e neppure il suo editore se ne preoccupò, e non mandarono neanche uno straccio di ringraziamento. Temo che la stessa Rowling non solo non sapesse di essere in nomination, ma che poi di sto premio, in mezzo ad altri mille, magari non sapesse proprio che farsene. Alla fine, pare il premio sia stato dato a un proprietario di librerie per ragazzi, presente in zona.
Anche il vincente il Nebula non è un libercolino, dato le sue 600+ pagine. Ma come detto già più volte, il dono della sintesi è un ricordo del passato, dei latini e di scrittori di altri tempi. Ma magari anche questo non è verissimo. Ora va molto di moda scrivere dei tomoni, se ne prenda atto e amen.
Bear è un autore che gradisco e ho gradito assai. Mi piace come scrive, mi piace la mancanza di timore nel trattare temi giganteschi. Qua la partenza è molto soft, e ricorda alcuni articoli tecnici di Le Scienze, più che un libro di SF. Si narra parecchio infatti di biologia, di proteine, di genetica, di virus e fagociti, di geni e codifiche. E non essendo del settore, smarrisco la via, anche se il senso generale mi è ben chiaro, e lo sarà sempre più, nel proseguo. Fatte le sue belle premessone di 250 pagine, introdotta una botta di protagonisti, tutto alla fine decolla, e le rimanenti 350 pagine sono veramente avvincenti, via via sempre più. Di che parla? Il nostro Bear tira fuori una bella ipotesi, (occhio agli spoiler!), che i Neanderthal a un certo punto fanno solo figli Homo Sapiens sapiens (come sarebbe scritto nei geni dormienti che abbiamo da sempre, a sentire l’Autore). Uomini diversi dai loro, visti come mostri: ebbene sì, non nascono più i Neanderthal, e così ecco il perché si estinsero. Chiaro, se tu, coppia di trogloditi, metti al mondo un Sapiens, eri visto molto male, all’epoca, la coppia veniva emarginata, cacciata, financo ferita o uccisa. O almeno così si ipotizza qua.
L’azione si svolge per la gran parte nei giorni nostri, quelli di oggi. Di punto in bianco, come se si fosse raggiunto un punto di rottura, nella storia racconatata nel libro non nascono più Sapiens. Anzi, tutte le gravidanze, rapidamente, nel mondo intero, diventano aborti, salvo che un mese dopo, senza interventi maschili, per così dire, le stesse donne sono di nuovo tutte incinte. Anche la seconda ondata, chiamiamola così, nasce male, almeno nei primi casi, ma finalmente qualcuno comincia a nascere vivo e sano. Altro non direi, perché in effetti questo libro vale un buon 7,5 e non è male, meglio di quello che credevo. E quella che all’inizio era vista come una terribile epidemia, una malattia da fine della specie, da alcuni scienziati illuminati (e combattuti da quelli dogmatici) viene invece subito vista piuttosto come l’evoluzione della specie.
Bear scrive bene, e quanto scriveva qua, tempo fa, oggi è ancora più attuale (soprattutto nella terminologia, forse allora era più di frontiera e oggi è più comune) e insomma questo premio va oggi rivalutato. E mi pare meritato.

Chi c’era in gara: per l’Hugo Una tempesta di spade, di George R. R. Martin, apparso in Italia in 3 volumi: Tempesta di spade, I fiumi della guerra, Il portale delle tenebre (alla faccia della SF, tra questo e Potter, che c’entrano?); L’equazione di Dio, di Robert J. Sawyer; l’inedito The sky road, di Ken MacLeod e Il pianeta di mezzanotte, di Nalo Hopkinson.
Per il Nebula: Guerra di strategie, di Lois McMaster Bujold; l’inedito Crescent city rhapsody, di Kathleen Ann Goonan; Il pianeta di mezzanotte, di Nalo Hopkinson; l’inedito Infinity beach, di Jack McDevitt e l’inedito Forests of the heart, di Charles de Lint.

Romanzo breve, vince l’Hugo La Terra definitiva, del vecchissimo Jack Williamson. Vince il Nebula l’inedito Goddesses, della Linda Nagata.

Certo, quando non ti hanno mai premiato, e ti premiano poi a 90 e rotti anni, sembra quasi che ti diano sto premietto alla carriera, più che per l’opera in questione. E in effetti, ora che l’ho letta, il sospetto permane bello forte. Perché questo, che in definitiva è forse più un racconto lungo, è un libercolo scritto alla vecchia maniera, piana, semplice, senza fronzoli, se vogliamo anche ingenua. Tra l’altro, a ben vederla, mi pare ci siano non pochi buchi qua e là, oltre a situazioni opinabili e smontabili, e contraddizioni. Si narra di un futuro lontano lontano: la Terra era stata, eoni prima, distrutta da impatti, ma ora, grazie a resti trovati sulla Luna, qualcuno riesce, scavando o clonando, a riportare in luce ricordi, manufatti e umani del tempo. I quali sono poi pure stufi di stare sulla Luna, e bramano di andare sulla Terra, che ogni giorno vedono splendere in aria. Ci andranno, non solo, ci saranno altre vicende, che a ripensarci sembrano un po’ un’accozzaglia di robe un po’ messe lì.
Insomma, non stravedo per questo romanzino che al massimo arriva a un 6, e pertanto il premio mi pare più legato all’autore che all’opera. Anticipo però che questa opera vincerà anche il Nebula, nella prossima edizione, e allora forse sbaglio io. Ma forse no.
Decisamente superiore il romanzo della Nagata. Scritto molto bene, fluido, bene approfondito, narra vicende ambientate con la tecnologia che avremo tra qualche anno, che dico, tra qualche mese, se spingeranno meglio la domotica. E infatti, a dirla tutta, la SF è in realtà assente. Forse quello che c’è in questo romanzo era fantascienza nel 2001? Mah, ne dubito parecchio. Si narrano le vicende di un protagonista, una buona persona, a capo di una società che sta migliorando una zona dell’India, e che si scontrerà, anche senza volerlo, con antiche barbare usanze locali, quando una ragazzina ripudiata gli finirà in casa. Romanzo direi avvincente, di buon livello e buona fattura, ma il problema è che si fatica molto a classificarlo come fantascienza, dato che tecnologicamente non è lontano dalla nostra vita odierna. Bello ma fuori tema, insomma, forse anche per questo è inedito in Italia, chissà. Per me, un 8 comodo.

Persero, per l’Hugo, l’inedito A roll of the dice, di Catherine Asaro; l’inedito The retrieval artist, di Kristine Kathryn Rusch; Oracolo, di Greg Egan; Settantadue lettere, di Ted Chiang e l’inedito Radiant green star, di Lucius Shepard.
Per il Nebula, l’inedito Fortitude, di Andy Duncan; l’inedito Ninety percent of everything, di Jonathan Lethem, James Patrick Kelly e John Kessel; l’inedito Hunting the snark, di Lewis Carroll, pardon, di Mike Resnick; l’inedito Crocodile rock, di Lucius Shepard e Argonautica, di Walter Jon Williams.

Racconto, vince l’Hugo 2001 Millennium babies (identico in originale), della Kristine Kathryn Rusch. Vince il Nebula Il mondo di papà, di Walter Jon Williams.

Il racconto della Rusch prende spunto da una cosa che mi pare di ricordare vagamente, cioè il fatto che alcune coppie avessero messo in cantiere intenzionalmente un figlio, per farlo nascere al 1 gennaio 2000, poco dopo l’inizio del nuovo millennio (come è noto, al tempo ci fu un equivoco, in quanto il nuovo secolo e il nuovo millennio sono iniziati un anno dopo, ma se uno è così idiota da programmare un figlio in quel modo, che volete che stia lì a cavillare). Orbene, mi pare quasi di sentire, la Rusch che dice, bon ci sono questi millennium babies, bambini del capodanno 2000, come faccio a farci una storia? Boh!? Quasi quasi mi invento una roba del tipo, chi nasce a mezzanotte e un minuto, diventa celebre, gli altri, nati magari 10’ dopo, sono dei perdenti e sfigati, magari poi pure abbandonati dai genitori. Perché? Come perché, che cavolo ne so, qualcosa dovrò scrivere, no? E la fantascienza, dite? Beh, lo ambiento nel 2030 e siamo nel futuro.
Tutto questo per dire l’assoluta insignificanza di questo racconto. Scritto benino, ma inutile, senza scopo, senza motivazioni, senza motivo di esistere. Bruttino anzi che no, diciamo che è figlio del fatto che fu pubblicato nel 2000 e premiato nel 2001. Ciò non dovrebbe valere un premio, ma così andò, brutta roba.
Per fortuna che c’è il racconto di Williams, bello bello bello ma veramente bello. Sintetizzare un racconto già non lunghissimo di suo, senza fare spoiler, è impresa titanica. Diciamo che c’è un papà che non si rassegna alla malattia del figlio, diciamo che escogita una soluzione molto tecnologica (SF, finalmente), diciamo che per metà racconto le cose non ti sono chiarissime, ma poi colleghi tutto. Diciamo che il racconto è bellissimo, che pone problemi e questioni su tanti piani diversi, su cosa è giusto e cosa no, se la cura è meglio della malattia, o magari è peggio, sul libero arbitrio. Un racconto splendido, con un gran bel finale (o il finale è, se vogliamo, terrificante?). E’ con molta soddisfazione che do un 8,5, forse 9. Anzi 9 senza forse, mi ha colpito molto. Lo trovate su Urania Millemondi n.49 (Il meglio della SF 2).

Erano in gara per l’Hugo l’inedito On the Orion line, di Stephen Baxter; l’inedito Agape among the robots, di Allen Steele; l’inedito Generation gap, di Stanley Schmidt e l’inedito Redchapel, di Mike Resnick. Poi non so se sono rimasti tutti inediti ancora oggi.
Per il Nebula, l’inedito Stellar harvest, di Eleanor Arnason; l’inedito A knight of ghosts and shadows, di Poul Anderson, pardon, di Gardner Dozois; l’inedito Jack Daw’s pack, di Greer Gilman; l’inedito A day’s work on the Moon, di Mike Moscoe; l’inedito How the Highland people came to be, di Bruce Holland Rogers e l’inedito Generation gap, di Stanley Schmidt. Anche qua, erano tutti inediti quando feci la recensione, una dozzina d’anni fa, ora, boh.

Infine, racconto breve. vince l’Hugo 2001 Tipi diversi di oscurità, di David Langford. Vince invece il Nebula I diritti delle vittime , alias Il mac, di Terry Bisson, in originale “macs”, così, con l’iniziale minuscola.

Ritengo che i racconti brevi, quelli poi così brevi, 6-7 paginette, sono difficili, ma veramente (da creare). Devi catturare l’attenzione, proporre un racconto, svilupparlo, sviluppare personaggi e mondi interi (o tentare di farlo), dare un bel finale, etc…e hai poco spazio, pochissimo. E’ anche vero che se ce la fai, ne esce un gioiellino, una cosa piccola ma perfettamente compiuta, che, a mio parere, può tranquillamente e allegramente concorrere con tomoni di ogni misura.
Questo per dire che c’è tanto, nel racconto di Langford. Tanta qualità, tante idee, tante carne al fuoco, ma tutto ben sviluppato e realizzato, in questa meritevole opera da 8 . Racconto classico, scritto in un stile fluido e accattivante, narra di come verrà scoperta una nuova matematica, che permetterà di disegnare figure che letteralmente mandano in pappa il cervello, se le guardi. E di come la società provvederà a mettere in sicurezza i propri giovani, impiantando dei congegni che fanno “vedere buio” in tutte le zone ritenute non sicure, e di come si discuterà se ciò sia giusto, e di altro, e di un Club di studenti che fanno capire che il futuro, rimarrà ora e sempre, dei giovani. Bello bello.
Inferiore, e di molto, quanto premiato con il Nebula. Un raccontino che lascia perplessi, non tanto per lo stile piuttosto originale, ma per il suo perché. Che scopo ha la storia raccontata? Che scopo ha quanto succede? E chi ci crede, a quel futuro così poco plausibile? Mah. Fatto sta che da quanto ho capito (l’opera non è che sia poi chiarissima), in futuro verranno fatti cloni di delinquenti, condannati a morte; questi, assieme all’originale, verranno dati a sorte a famiglie che decideranno come metterli a morte, dando loro stesse l’esecuzione che preferiscono. Mah, il tutto convince poco. Lasciamo perdere.

C’erano, per l’Hugo, l’inedito Kaddish for the last survivor, di Michael A. Burstein; l’inedito Moon dogs, di Michael Swanwick; Gli elefanti di Nettuno, di Mike Resnick e l’inedito The gravity mine, di Stephen Baxter.
Per il Nebula, l’inedito The fantasy writer’s assistant, di Jeffrey Ford; l’inedito The Golem, di Severna Park; l’inedito Flying Over Water, di Ellen Klages; il bel Scherzo con il tirannosauro, di Michael Swanwick e l’inedito You Wandered Off Like a Foolish Child To Break Your Heart and Mine, di Pat York.

Artista, vince ancora Bob Eggleton.

Spettacolo, vince La tigre e il dragone, di Ang Lee, il quale, non presente alla Convention, almeno ebbe la decenza di inviare un biglietto di sentiti ringraziamenti per l’onorificenza ricevuta.
Su questo film si potrebbe discutere parecchio, e io ne sarei un valido difensore. Questo film è un “wuxia”, che tradotto in italiano, significa cavaliere o eroe dell’arte marziale, più o meno. Come c’è il western, per dire, c’è il wuxia (ed esiste dagli anni ’30, almeno). Ora, cosa succede in un wuxia pian (pian vuol dire film)? Ma prima, per dire, cosa succede in un western? Una delle scene più frequenti nei western è il duellone, no? Due ebeti che si sfidano a pistolettate, e noi tutti a crederci, che estraendo e sparando così, colpisci qualcosa. Ma è chiaro che si basa su una sospensione della credulità (o dell’incredulità), o su una clamorosa botta di culo. La realtà è un’altra, ma quando vedi un western, ti piace credere a tutti i simpatici clichè che ne fanno parte, e il saloon, e il vecchietto che suona il piano, il figone che canta, i cattivi che rompono i maroni, il protagonista che ottimizza i proiettili (quattro spari, quattro morti, 6 spari 6 morti e così via), inseguimenti, cavalli, indiani, cowboy, etc…Ma è tutto finto, e chi non conosce il mondo occidentale potrebbe dire “Come fate a credere a ste robe?”.
Orbene, per il wuxia, uguale. In quel genere, è normale che i protagonisti facciano salti impossibili, che volino, che combattano sulla cima delle piante, le quali non sosterrebbero neanche un passerotto. Ogni critica in tal senso non ha ragione di esistere. Perché se no dovremmo allo stesso tempo bocciare dei capolavori western (ce ne sono parecchi, compresi gli spaghetti western), solo perché inverosimili.
Poi uno può anche dire che non gli piace, per carità, de gustibus, ma può dirlo per altri motivi. A me piacque molto (ho pure il DVD), su IMDB ha un buon voto di 7,9. Piacque anche a tanti altri: un paio di Golden Globe, 4 Oscar, tra cui film straniero e migliori musiche (e altre 6 nomination andate male), premi in vari festival in giro per il mondo.
Uno può pure dire, ok, tutto giusto, ma non è fantascienza. E qua mi trova d’accordo. Cosa c’entri questo premio con la fantascienza, boh, ma se poi ha vinto Harry Potter, tra i romanzi, facciamo passare tutto per buono, a sto punto. Il film fu una produzione molto minore, taiwanese – cinese – hongkonghese etc, tanto che è recitato in mandarino (la lingua), e fu un bel successo economico.
La storia è complessa, con maestri vagabondi, allieve, nemiche cattive, duelli, spade potentissime e amori dichiarati o meno. Dirigeva Ang Lee, già all’epoca famoso per vari film, alcuni molto belli (Il banchetto di nozze, Mangiare bere uomo donna, Ragione e sentimento, Tempesta di ghiaccio), ma sicuramente questo sarà al momento il suo film più famoso, che incontra il grande pubblico. Poi comunque avrà un bel po’ di frecce al suo arco, fino all’Oscar alla regia.
Protagonista è Yun – Fat Chow, il maestro, un viso ben noto, all’epoca aveva già decine di film alle spalle, nella tradizione di Hong Kong, dove non è strano fare 5-6 film all’anno, tutti gli anni. Film quasi tutti sconosciuti al grande pubblico, ma ricorderei The killer, che era un gran bel film, fatto una decina di anni prima, o Hard Boiled (entrambi di John Woo); ora l’attore iniziava a essere visto in Occidente, l’anno prima aveva fatto Anna and the king, un remake trascurabile.
Lei è Michelle Yeoh, altro volto ora noto, vista qualche anno prima in uno 007, anche lei, come tradizione orientale, attrice che deve essere molto capace anche fisicamente.
E poi ovviamente c’è Ziyi Zhang, personalmente, una gnocca da paura, allora ventenne o giù di lì, ben nota a chi piacciono le bellezze orientali, allora quasi esordiente ma protagonista, l’anno prima, del bellissimo La strada verso casa (di Zhang Yimou, e anche qua, ce ne sarebbe da dire).

Tra quelli in gara, gli X-Men di Bryan Singer e Frequency.
Foto da IMDB

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Male.
Non sarà fantascienza, ma la saga è davvero un capolavoro, sotto diversi punti di vista.

anche se mi sono visto al completo la saga cinematografica.

Non è la stessa cosa.

E’, in tutta onestà, come lo immaginavo: fluidissimo come lettura, stile piacevole, ma rimane un libro per ragazzi. Non so se questo libro in particolare sia indicativo di tutta la serie;

No.
Lo stile si trasforma e cresce di libro in libro, rimanendo “fluidissimo e piacevole”. Il primo è adatto agli under 11 (diciamo pure sei sette, ottenni), il secondo agli under 13, (fai 9-12) il terzo agli under 14 e via cosi. Anche questo fa parte del fascino della saga, che va letta dal primo all’ultimo libro, senza saltare nulla, per seguire la crescita della storia, dei personaggi e dei tuoi figli (o del bimbo in te) a cui la leggi.

mi sento di dire però che è ben difficile che un adulto si possa appassionare a questa opera.

Tu non sai quello che dici.
La saga ha appassionato milioni di adulti, e ne hai uno qui. Vabbè, adulti fuori, dai…

Perché quando Harry e Ron si guardano in classe e cercano di non ridere, il motivo dell’ilarità è sempre una stronzata, adultamente parlando. Chiaro, mi ricordo anche io quando da ragazzino si soffocavano le risate a scuola e si diventava tutti rossi, ma di acqua sotto i ponti ne è passata tanta.

È esattevolmente così: non è colpa della Rowling se tu non ricordi bene - il quarto libro è per 14/15/16 enni, la Rowling è un genio che ti ricorda molto bene com’era.

E l’esempio che ho portato è descrittivo dell’intero clima del libro: tante, tantissime situazioni in cui ogni ragazzino troverà modo di sognare ad occhi aperti, ma che ad adulti senza pietà, cinici e scafati come voi e me (me soprattutto) non dicono tanto, anzi, dicono che sono ragazzate. Ad infierire, si può dire che tutto è semplice, banale, che non c’è il minimo approfondimento psicologico, che lo stile è sì fluido e comodo da leggere

Io penso che qui tu sia blasfemo: sono ragazzate perché i personaggi son proprio ragazzi di 15 anni, e il libro è anzitutto per ragazzi di 14/15/16 anni, e tutto ti ricorda e ti parla di com’era avere quell’età lì.

Semplice? Banale? Senza approfondimento psicologico??
Credo che a te serva qualche mese in un campo di rieducazione alla lettura, razza di mummia che non sei altro! E fila a procurarti tutta la saga e a leggerla dal primo all’ultimo libro, con costanza, impegno e attenzione.
Va che poi interrogo, eh?

Confermo quanto detto dal Babbano, anche se mi sono fermato ai primi 5 volumi.
Per quanto mi riguarda era divertente proprio “regredire” a una certa età, ma quando la storia ha iniziato a farsi troppo scura non mi divertivo più. È il motivo per il quale attualmente negli anime cerco soggetti per lo più leggeri (senza contare che se li guardo è perché mi sento un po’ in credito con la mia adolescenza, e con la giovinezza in generale).
Certo non si capisce cosa c’entri Harry Potter con la fantascienza, questo è fuor di dubbio.

Anna and the king, un remake trascurabile.

Be’, l’originale era ancora più trascurabile, nonostante i protagonisti fossero di prim’ordine.

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Ciò non toglie che molte cose che appassionano milioni di adulti sono difficili da capire o giustificare … basterebbe guardare i social network, la politica … e smetto perché si va verso la depressione :pensive_face:

Relativamente ad HP, non l’ho mai letto, quindi non mi esprimo.
Quello che ho provato a fare è dare un’occhiata ai titoli del 2000 (ricordo a scanso di equivoci che l’hugo premia i titoli dell’anno prima) di romanzi di grosso calibro non citati vedo solo Look to Windward - Iain M. Banks e Revelation Space - Alastair Reynolds, che però è stato pubblicato negli USA solo 2001, discorso analogo per Perdido Street Station
Per il fantasy ci sarebbe anche lo splendido Ash: A Secret History di Mary Gentle
Poi c’erano un po’ di autori famosi la LeGuin, Baxter, Clarke, McDevitt, Kress, Elizabeth Moon, etc… che però non hanno sfornato opere memorabili.

Tra i finalisti all’Hugo avrei votato per L’equazione di Dio di Robert J. Sawyer, che mi era piaciuto parecchio, come pure il vincitore del Nebula.
Certo che se avessimo avuto un lotto di finalisti con Banks, Reynold, Mieville probabilmente si avrebbe un impressione diversa.

Anatema ti colga. Di più al @Tobanis, però
:mage:

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Dagli tregua. Già leggono tantissimo, e sono tanto gentili da parlarcene qui… :slightly_smiling_face:

Te sappi che ti mancano 3 libri (perché il 7 è in due volumi)…

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Ho letto il primo HP un annetto prima che uscisse il film. Non ho proseguito la serie.

Non mi mancano proprio…

Te sappi che stai srovegliato speciale

:face_with_raised_eyebrow: :sweat_smile:

Te ti vedo a Stranimondi.

Sottoscrivo.
Vero è che oggi è diverso da leggerlo ieri. I film al solito hanno tolto qualcosa.
Aggiungo: agli studios c’erano tanti adulti quanti ragazzini, e tutti ugualmente coinvolti.
HP è un fenomeno di costume prima che un opera letteraria.
Certo, se vogliamo andare a ben vedere, come tale non è all’altezza di altre come il signore degli anelli, che può vantare una scrittura nettamente superiore. In HP non mancano errori o punti deboli.
Però è un fatto. È un enorme fenomeno di costume.

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Non ci trovo nulla di strano. Il primo è molto acerbo, troppo infantile. La storia e lo stile arrivano a maturazione attorno al terzo o quarto della serie, raggiunge l’apice col sesto, e con la prima parte del settimo, in cui finalmente arrivano anche concetti e considerazioni più profonde.

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ripeto quello che ha scritto la Rowling stessa, e che si adatta perfettamente alle opere: sono le storie che lei aveva creato per i suoi figli che crescevano, e crescono con loro, insieme ai personaggi. Il primo libro è adatto ai fanciulli di una certa età, dal settimo siamo ai confini con i maggiorenni, o forse parliamo proprio di adulti

Nel primo film, Privet drive era girato in normali strade nei paraggi di Londra, una delle millle mila strade tutte uguali con villette tutte uguali, vialetti tutti uguali accanto a garage tutti uguali con auto tutti uguali.
Visto il successo, dal secondo film ricostruirono Privet Drive all’esterno degli studio.
Più in generale, nessuno si aspettava un successo così planetario. È stata una immensa sorpresa.

2002

Sottolineavo al tempo varie cosette della Convention per gli Hugo, tra cui il nascere e la rapida diffusione su Internet dei “blog”, un fenomeno nuovo che aveva preso piede.
Carina poi la cosetta che quanto previsto per il 2001, dai film, non si era realizzato: “2001 didn’t turn out quite like we expected, but then again neither did 1984. You win some, you lose some.”.

Infine, cosa si sarebbe messo in una vetrina ideale di SF, avendo solo un metro lineare di spazio: Frankestein, l’Hall of Fame della SF (raccolta di opere brevi), Destinazione stelle, Cronache marziane, Le guide del tramonto, Stella doppia 61 Cygni, 1984, Il signore degli anelli, Nova, La svastica sul sole, Dune, Signore della luce, Neuromante e Hyperion.
Come sempre, opinabile.

Vince l’Hugo 2002 per il migliore romanzo:

Vince il Nebula per il migliore romanzo

Che cambio da Harry Potter e il calice di fuoco (che vedo ha molti estimatori), vincente l’anno scorso e casto libro per ragazzi, e questo American gods, che da subito si dimostra per adulti, nel frasario, nelle situazioni, nelle esplicite scene sessuali.
Non si può fingere di ignorare che questo è ritenuto in realtà un romanzo di fantasy, anzi, è stato ritenuto il più bel romanzo di fantasy degli anni 2000 (fino a una decina d’anni fa, da una votazione su Locus). E non si può fingere di non sapere che vincerà pure il Nebula, nella prossima edizione.
Qua si potrebbe riaprire una eterna diatriba, su cosa sia SF e cosa no, su cosa sia fantasy e cosa no, diatriba che tra l’altro sembra forse importante ai giorni nostri, mentre nel secolo scorso era normale, per il lettore appassionato di SF, passare al fantasy e tornare indietro, senza problemi, ed erano molti gli autori che bazzicavano entrambi i mondi.
Comunque, questo è classificato di solito nella fantasy. Fantasy…mah, nel libro più che fatine ci sono vagine, per fare rima e per fare capire subito il clima maturo e disincantato per permea tutto il libro. Diciamola tutta anche questa: io sono tra quelli che lo reputano un capolavoro. Ok, c’è chi non lo ha gradito, e sicuramente per motivi validi; io no, io sono per un’ammirazione anche piuttosto incondizionata. Non dirò molto di questa opera, se non che DEVE fare parte del bagaglio di letture di ogni appassionato di SF (o di fantasy, ma decidete un po’ voi, a me non interessa molto). E’ una lettura obbligatoria, una di quelle non frequenti uscite sul mercato che BISOGNA conoscere. Poi, giudicherete. Ripeto, è un libro che meriterebbe un’ampia analisi, ma la trovate già un po’ dappertutto, pertanto io aggiungerò solo i miei 2 cent, invece di tirarli nella fontana.
Il libro è dedicato a Roger Zelazny, uno dei miei autori preferiti, e allora si parte già bene, e ancora meglio quando ti accorgi, leggendolo, che questo avrebbe potuto scriverlo benissimo il buon Roger, sia per lo stile, sia per lo “scazzo quasi Lebowskyano del protagonista” (cito me stesso) sia per la confidenza nel trattare con gli dei, argomento che Zelazny ci fece vedere a suo tempo, anche in capolavori. A fondo libro, tra i ringraziamenti, si cita Harlan Ellison (un altro dei miei autori preferiti) e la sua raccolta Deathbird Stories (sottotitolo A pantheon of modern gods),e il corto circuito è completo.
Non mi dilungherò ancora sull’opera di Gaiman, anche se lo sto facendo, perché le cose da dire vengono fuori così, da sole. Io personalmente non finirò mai di ringraziare Gaiman, ad esempio, quando a un certo punto introduce un personaggio (il poliziotto di Lakeside) e lo chiama Chad Mulligan. Chi è Chad Mulligan? Ma come… Cari lettori. Io vi invito a leggervi i classici, prima di buttarvi su tante cose discutibili che ci sono oggi. Anzi, dovete leggere i classici, che poi non sono altro che i libri di formazione degli scrittori di oggi. Perché quando tutti dicono, tra gli scrittori, che stanno leggendo Vance, beh, ca**o, leggiti Vance anche tu, no?
Oppure se Gaiman dà a un suo personaggio minore il nome di uno dei protagonisti più formidabili della storia della SF, quel Chad Mulligan di Tutti a Zanzibar, di Brunner, libro ponderoso, mostruosamente avanti, geniale in molte parti, spiazzante e magari noioso e sconcertante ma fondamentale, un libro inevitabile, che il Nostro evidentemente conosce, anzi di più, probabilmente ama… beh, ma è un omaggio e una citazione coi contro catsi! Perché rispolverare Mulligan, un tipo fighissimo, è un colpo di genio, che magari le nuove generazioni non afferrano, ma le più vecchie, antiche, (o vetuste come me), dicono solo “Mi inchino reverente, Gaiman!” (esagero, chiaro).
Nel libro di Brunner questo Mulligan è uno scrittore, autore tra l’altro di Sei un idiota ignorante…ma vabbè, ora divago troppo. Insomma tutto questo pipotto mentale per dire che questo libro è sensazionale anche nei dettagli, e se ne potrebbe parlare per ore mesi anni. Della trama vi ho detto? Non va raccontata, se non che il protagonista sta per uscire di galera e tornare dalla sua mogliettina. Ma tutto è diverso da come pensava; lui andrà invece a lavorare per un tizio (che altri non è che Odino), gireranno per molta parte degli States e ne succederanno di tutti i colori. Non dico altro e non cercate anticipazioni sulla trama, leggetevelo e godetevelo.
Alla premiazione Gaiman era fuori di sé dalla gioia, dato che era sempre stato un suo sogno da giovane vincere l’Hugo, ma che crescendo si accorgeva di non essere quel tipo di scrittore che vince. Chiuse con “Cazzo! Ce l’ho fatta! Grazie!”.
Nebula, passiamo al Nebula. Il romanzo è sorprendentemente buono. Diffidavo, non fosse altro per la brutta copertina (pardon all’autrice) dell’edizione italiana. Invece, è vero che mi riporta a opere lette negli anni ‘70-’80, come stile, come intreccio SF - FANTASY; è vero che non è poi così originale, anzi; ma è anche vero che te lo bevi in un fiato, e che cattura presto e definitivamente la tua attenzione.
Abbiamo la già vista (altrove) civiltà simil medioevale, che sopravvive alla meno peggio e che usa, senza capirli o poterli aggiustare, meccanismi e macchine di un passato lontano ma molto più glorioso e tecnologico. Già visto, no? Eppure, funziona sempre, questa ideuzza. Più avanti scopriremo molte altre cose, anche che codesti umanoidi altro non sono che i discendenti di umani opportunamente modificati geneticamente, per vari scopi, spesso non nobili. L’arrivo della “Storia”, dell’attualità, dei veri protagonisti dell’Universo, sul piccolo pianeta, scompaginerà per sempre le tradizioni e storie locali. La protagonista, discendente da una popolazione geneticamente modificata chissà quanti secoli prima, come tutti i suoi antenati, allo scopo di piacere e di servire, doveva andare in sposa al locale ricco bulletto, ma finirà per sposare l’uomo che, poi si scoprirà, viene dalle stelle e che ovviamente è un figo della peppona. Poi ne succederanno molte, in quel pianeta e altrove, e si scoprirà che la speciale sintonia che c’è nella coppia è ben più che speciale.
Bel libro, ben scritto. E’ giusto e doveroso un premio che lo ricordi, alle future generazioni, caso mai ci sia qualcuno che si metta in testa di rileggersi tutti i premiati e col Nebula sperasse di trovare roba buona.

Concorsero e persero, per l’Hugo L’ombra della maledizione, di Lois McMaster Bujold; l’inedito Passage, di Connie Willis; Perdido Street Station, di China Miéville (stesso titolo in originale); l’inedito The chronoliths, di Robert Charles Wilson e La fortezza dei cosmonauti, di Ken MacLeod.
Per il Nebula l’inedito Eternity’s end, di Jeffrey A. Carver; l’inedito Mars crossing, di Geoffrey A. Landis; Tempesta di spade, di George R.R. Martin; l’inedito The Collapsium, di Wil McCarthy; l’inedito The Tower at Stony Wood, di Patricia A. McKillip; l’inedito Declare, di Tim Powers e l’inedito Passage, di Connie Willis.

Romanzo breve, vince l’Hugo Tempi veloci a Fairmont High, di Vernor Vinge. Il Nebula premia La Terra definitiva, del 94enne (allora) Jack Williamson.

Vinge mi piace, e anche qua si fa leggere ben volentieri. La società che dipinge vive immersa nella realtà aumentata (anche se non la chiamano così), e nella continua connessione alla rete. Il protagonista è un ragazzo delle medie, o giù di lì, ha lenti a contatto speciali e pure i suoi abiti nascondono parecchie connessioni. Ma è un ragazzo come tanti; è il tempo degli esami, alla scuola Fairmont High. Ok, l’incipit è finito. La storia che segue, in realtà, si fa preferire solo per le possibilità date da tale realtà aumentata e tecnologicamente così spinta. La storia in sé vale ben poco e non è riuscita benissimo. Il tutto è alla fine discreto…ma netta è la sensazione che lo spunto sia molto interessante, e il romanzo molto meno. Attenzione però, tanti ritengono questo romanzo breve una gran bella cosa. Io mi sento un tantino più scafato e non l’ho apprezzato così tanto.
Meno ancora, come dissi nell’edizione precedente dell’Hugo, quello vincente il Nebula. A Williamson viene dato, per il romanzo che già aveva vinto l’Hugo, questo premio che pare più alla carriera che all’opera. Forse che pensavano che il vecchio Jack, ultranovantenne, fosse lì lì per schiattare e non facessero poi in tempo? Boh. Lui li fregherà tutti, perché lascerà questo mondo dopo altri 4 anni, nel 2006, a quasi cento anni. Per vedere che ne penso, rispolverate quanto scritto sopra.

Persero per l’Hugo l’inedito Stealing Alabama, di Allen M. Steele; l’inedito May be some time, di Brenda W. Clough; l’inedito The chief designer, di Andy Duncan e l’inedito The diamond pit, di Jack Dann.
Per il Nebula, l’inedito A roll of the dice, di Catherine Asaro; l’inedito May be some time, di Brenda W. Clough; l’inedito The diamond pit, di Jack Dann e l’inedito Radiant green star, di Lucius Shepard.

Racconto, vince l’Hugo 2002 L’inferno è l’assenza di Dio, di Ted Chiang. Ennesima decisione diversa per il Nebula, che assegna il premio 2001 all’inedito Louise’s ghost, della Kelly Link.
L’opera di Chiang è, al solito, notevole. Ma questa, veramente. Occhio se faccio qualche spoiler (ne faccio parecchi). Il mondo descritto è in tutto e per tutto uguale al nostro, se non che, appaiono, a volte, gli angeli. E ogni tanto si vede l’inferno. L’apparizione di un angelo è accompagnata da miracoli, ma anche, data l’enorme energia che si sprigiona, da parecchi morti, vuoi perché ad esempio le persone cadono in crepacci, che si aprono al momento, o vuoi perché esplode una vetrina di vetro, e partono schegge micidiali, che uccidono, come capita qua, la moglie del protagonista. Il male e il bene, che si verificano in seguito all’apparizione di un angelo, sono casuali. Miracoli succedono a chi non li meritava particolarmente; muoiono persone che pure non lo meritavano. Non c’è un piano, non c’è giustizia. C’è solo, aggiungo io, la prova di un aldilà. Se qualcuno muore, nel libro si racconta, si vede chiaramente se la sua anima ascende in cielo o sprofonda. Ad alcuni è dato vedere la gloria del Cielo: nel momento in cui l’angelo torna a casa, il cielo si apre e qualche raggio paradisiaco filtra a terra. Chi ne è colpito vede la beatitudine eterna, non muore ma è cieco per sempre. Anche l’inferno a volte si vede: il suolo acquista trasparenza e per un po’ si vede che l’inferno non ha però caratteristiche particolari, si vedono le persone che piangono o ridono così come qua da noi.
La storia parla del protagonista che come detto rimane vedovo. L’unico scopo della sua vita era sua moglie. Ora per rivederla, deve andare in Paradiso, quando sarà il momento (se si suicida, la perde per sempre); solo che lui non è che ami Dio particolarmente, e pertanto non la vede facile.
Il finale sarà crudele, se vogliamo, ma tutto sommato coerente con un dio in definitiva indifferente all’umanità. E’ curioso notare che nel romanzo, dove “c’è” in pratica la prova provata dell’aldilà, le cose cambiano ben poco, rispetto al rapporto con le religioni che c’è qui da noi. La gente non è che creda più o meno che qua. E allora, viene da domandarsi, se l’inferno è l’assenza di Dio, non è che l’inferno è la società descritta da Chiang, una società è vero con angeli e l’Inferno, visibili, ma dove manca totalmente la presenza di dio, se non casuale e senza scopo? O forse, l’autore vuole dirci che l’inferno è in realtà la nostra società, dove non solo mancano prove dell’esistenza del divino (prove concrete, non prove di fede), ma pure non compaiono mai angeli (intendo notati chiaramente da centinaia di persone), o non appare talvolta, come nel libro, lo stesso “Inferno”. Mah. Opera profonda, con molte sfaccettature e con molti piani di lettura, che non a caso è ritenuta da molti la migliore opera breve del secolo XXI. Anticipo che vincerà pure il Nebula, nella prossima edizione.
Nebula: inferiore ma comunque di qualità il racconto della Link. Inedito in Italia, parla di due amiche (entrambe si chiamano Lousie), di come una delle due abbia una bambina particolare, e l’altra abbia in casa un fantasma, la qual cosa è scocciante assai. Il tutto è scritto veramente bene. Lo stile è piano, semplice, in apparenza, anche troppo semplice. Il tutto è molto figo: la storia è in definitiva poca cosa, ma il taglio scelto te la fa seguire tutta d’un fiato. Fantascienza assente (ma anche in quella di Chiang, se vogliamo), si arriva poi a un finale delicato e poetico, tanto che dici, cavolo, la storiella è caruccia, ma sta tizia, sa il fatto suo! E un bel premietto ci sta proprio bene.

Persero: l’inedito The days between, di Allen Steele; Disfatto, di James Patrick Kelly; Aragoste, di Charles Stross e l’inedito The return of Spring, di Shane Tourtellotte. Questi per l’Hugo, per il Nebula l’inedito To kiss the star, di Amy Sterling Casil; l’inedito The Pottawatomie giant, di Andy Duncan; Disfatto, di James Patrick Kelly; l’inedito Auspicious eggs, di James Morrow e l’inedito Dance of the yellow-breasted luddites, di William Shunn.

Infine, racconto breve, vince l’Hugo 2002 Il cane che diceva bau (alias Il cane disse bau bau), di Michael Swanwick. Nebula 2001, ancora una decisione diversa. Vince l’inedito The cure for everything, della Severna Park.

E’ difficile non esaltarsi davanti a quel gioiellino di racconto che vince l’Hugo. Il bravo Swanwick, nel limitato mondo del racconto breve (qua neanche troppo breve, mi sa che eravamo al limite), ci mostra tutte le potenzialità della fantascienza. Fantasia, creatività, situazioni strane ma belle, assenza di limiti. Il protagonista è un cane, oddio, ricorda un cane, ma profondamente modificato geneticamente, cammina su due gambe, o zampe, si esprime come un lord, piace un sacco alle donne (avrà una storia con la gnocca del racconto, che possiederà, non serviva dirlo, doggystyle, pardon), ma è un bel furfante. Assieme al suo complice londinese (umano), proveranno a fare un furto a Buckingham Palace. Siamo in un futuro estremo, e la sede della regina è ben diversa da oggi, e pure lo è la Regina. Non voglio dire altro, rintracciatelo e godetevelo, è puro divertimento intelligente.
Un piccolo capolavoro destinato a vincere fin dalla sua uscita. Ah che bello, avercene di SF così.
Chiudiamo infine con quella che è purtroppo una mezza cagata. L’autrice, Severna Park (immagino uno pseudonimo) ci narra di questa popolazione, rimasta isolata nel profondo dell’Amazzonia, da secoli, che viene ora scoperta e che, ci si accorge, ha in sé i geni per guarire ogni malattia sulla Terra. Lo svolgimento è parziale, acerbo; la storia non decolla e termina senza molto senso. L’interesse non nasce mai e si arriva a questo Nebula insensato. Bene rimanga inedito, sto raccontino senza scopo.

Artista, vince Michael Whelan, al miliardesimo Hugo o giù di lì.

Spettacolo e compagnia bella, vince Il Signore degli Anelli: la compagnia dell’anello , di Peter Jackson.
Basato ovviamente sull’opera di Tolkien, della quale opera non dirò nulla non avendola letta, evito così i pipponi insopportabili se sia fedele al libro o meno e chissenefrega. Che poi, anche su questo film celeberrimo, se ne saranno già scritte chissà quante, perciò stiamo parlando dell’acqua calda. Non vorrei essere offensivo o frainteso, questo film mi piacque a dismisura e lo reputo un piccolo capolavoro o giù di lì. Girato come noto in Nuova Zelanda, e come noto unì critica e grande pubblico, concordi nell’esaltarlo. Tredici nomination agli Oscar (ma ne vinse 4, e un tantino minori, si fa per dire, fotografia, colonna sonora, effetti, trucco). Su IMDB ha l’eccellente voto di 8,9. I costi furono sì notevoli, ma girando assieme anche il secondo episodio, si ammortizzarono. Gli incassi furono incredibili, per l’epoca, non lontani dal miliardo di dollari. Insomma, è piaciuto a molti e si è rivelato una miniera di soldini.
Cast da urlo prolungato (prolungato perché si pensi che vennero girati assieme i primi due film, per un totale di un anno di vita abbondante da passare in Nuova Zelanda, con pause, chiaro). Il protagonista Elijah Wood, che era una vita che recitava, ma nessuno l’aveva finora mai notato (c’è pure in Ritorno al futuro parte 2). Da qua in poi, chi non lo riconosce? Stesso discorso, in tono minore, per Sean Astin (Sam). Gandalf è il celebre McKellen, era uno dei migliori attori in circolazione, già allora (prima di lui si pensò a Sean Connery, o Patrick Stewart, ma Gandalf E’ McKellen, fine della discussione). Aragorn è il mostruoso (per bravura) Viggo Mortensen, un attore che ammiro incondizionatamente. Si pensi che si valutava Nicolas Cage, scelta che avrebbe affossato l’intera serie, probabilmente (scherzo)…Viggo magari qualcuno come me lo ricorda in Witness – Il testimone, o l’istruttore di Soldato Jane, o in altri film, ma è sicuramente qua che la sua faccia già nota diventa la faccia di una star. Sean Bean è Boromir, ma forse ora è più famoso ancora per Il trono di spade. E mica abbiamo finito. Legolas è niente meno che Orlando Bloom, allora lui sì uno sconosciuto, oggi ovviamente celeberrimo non fosse anche per la saga dei Pirati dei Caraibi. E ho già parlato di Christopher Lee, Hugo Weaving, Cate Blanchett, Liv Tyler…? Un cast spettacolare.
Non aggiungerei altro. Come noto ha un finale aperto e venne seguito da due film, una trilogia super famosissima. A questo primo film diedi 10.
Tra i battuti, Shrek (il primo), Harry Potter (il primo), Monsters & Co. (il primo).
Foto da IMDB

Ahia…Adesso ho fatto venire a tutti la voglia di rivederlo?

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No, io preferisco il libro. Confesso che era tale il “film” che mi ero fatto nella mia mente leggendolo che di questo ne avrò visto meno di metà, poi l’ho mollato. Mi rimane il rimpianto di non averlo letto in originale (tranne qualche capitolo), ci sono diversi errori o scelte discutibili nelle traduzioni in circolazione. Ma prima o poi potrei pure riprenderne la lettura.

Certo fa un po’ strano vedere mischiati senza problemi fantasy e fantascienza.

Ah beh - Roger mi piacque molto, anche se alla fine il ciclo di Ambra era diventato abbastanza un’operazione commerciale.
Però non ricordo che fosse molto hard, anzi: forse non per bambini, ma nulla di spinto - Invece di American Gods anche la versione per TV (tra l’altro, azzopparta a metà) non era propriamente per ragazzini. Il libro mi manca, se lo trovo domani lo prendo, sennò vedrò di acquistarlo online. Dovrei farcela a leggerlo in un paio di anni e far sapere. Appuntamento nel 2027.

Nessun film (o insieme di film) può rendere quel libro, sappilo. Riconosco però che il cast è stato azzzeccato.

American Gods lo ho riletto di recente, da notare che quando uscì in Urania (circa 2002) , fu proprio la molla che mi fece cominciare a comprare Urania.
Mi era piaciuto di più la prima volta. O meglio, ha delle idee e uno svolgimento notevole (come sempre fa Gaiman), ma lo ho titrovato frettoloso nel finale, ovvero butta via un sacco di cose che aveva costruito.
Fantascienza o fantasy? Non è che non ci sia fantascienza con esseri sovrannaturali o ultradimensionali o simili. Abbraccia il fantastico in generale. Indubbiamente va letto per l’enorme potenziale e per l’uso dei personaggi.
La serie TV mi piaceva, ma costava troppo ed è andata a gambe all’aria.

In compenso avevo preso la Rosa Quantca proprio in quella edizione dell’immagine e non mi era piaciuto per nulla, mi era sembrato un harmony con un camuffamento da fantascienza.
Avevo recuperato The Chronoliths in originale ed era di certo superiore.

Sul Signore degli Anelli è semplice. Usate il bipensiero (più o meno), sono straordinari ognuno nel proprio universo, metterli accanto vi rovina l’esperienza.
Letto in ingliese (li avevo regalati all’allora fidanzata per un suo compleanno) e sono più che scorrevoli.