Pochi conoscono il vicolo del Muzio. Una traversa della più rumorosa via Nazionale. Una stradina chiusa, stretta, dimenticata. Chi non vi abita non ha motivo di entrarvi. Sfugge allo sguardo del signore o della signora che si godono il passeggio della città e, anche, dell’uomo d’affari che in tutta fretta attraversa la più famosa via per recarsi in qualche Ministero a sbrigare una sua certa pratica. Solo i ragazzini del quartiere sanno della sua esistenza, e la evitano. Qualche pavido, però, ogni tanto, si fa coraggio: entra correndo nel vicolo come un ossesso, verso il vecchio palazzo. Arrivato al grande portone, tutto tremante, allunga il braccio con le gambe pronte a correre nell’altra direzione e suona il campanello, dispettoso. Poi, si fionda verso l’uscita della stradina, urlando terrorizzato e raggiunge tronfio gli amici, che lo aspettano ridacchianti dietro l’angolo, convinto di aver dato prova del suo eroismo e del suo immane coraggio.
Il vicolo cela, infatti, con discrezione, il civico numero uno. Strana numerazione visto che l’antico palazzo sorge proprio al centro della viuzza. La leggenda vuole che un Principe romano dell’ottocento, grande giocatore di Faraone, baro e puttaniere, l’abbia vinto a carte, e ne abbia cambiato la numerazione per attestare il suo stato di Prior. Cose che si facevano in altri tempi, dove chi aveva potere lo esercitava sugli altri, senza nessuno scrupolo e senza remore morali.
Gli abitanti? Gente discreta. Riservata. Se entrerete, non vi saluteranno né vi sorrideranno. Eppure, di sguincio, senza farsene accorgere, seguiranno con attenzione tutte le vostre mosse.
Non è raro che un viandante, di notte, si smarrisca nel dedalo del centro storico e, senza volerlo, si trovi a varcare quella soglia invisibile. Appena mette piede nella strada, una finestra si apre. Silenziosa. Un volto appare nell’ombra. Là, sulla destra. Sì, lassù al secondo piano. Rimane immobile. Lo osserva. Uno sguardo che non chiede e nemmeno accusa.
Un altro volto segue, più avanti. Poi un altro. E un altro, ancora. Occhi che emergono dal buio, muti, attenti.
Il viandante avverte qualcosa. Un brivido freddo sulla schiena scorre. Accelera il passo. L’inquietudine s’arrampica nella sua anima. Poi corre. Fugge. Via da lì. Via da quel vicolo.
Nella stessa maniera il cavaliere Riccardelli, entrato nella viuzza per motivi tutti suoi, percepisce un disagio profondo nelle ossa. Ogni passo gli è divenuto pesante, quasi insormontabile. Vorrebbe tornare indietro. Girare i tacchi. Tornare al treno. Tornare a casa, di corsa.
Già…
Non può. Deve farsi forza. Deve procedere.
Si stringe nel pastrano marrone, alzando il bavero fin sopra al collo come a volersi difendere. Mani nelle tasche. Respiro profondo, per darsi coraggio. Poi, con passo malfermo, lanciando un’occhiata furtiva dietro le spalle, avanza incerto verso il civico uno.
Fa suonare il campanello, rompendo il silenzio opprimente del vicolo. Dietro l’antico e maestoso portale di legno si sente così piccolo che gli viene naturale togliersi il cappello di feltro.
Poco dopo, la finestrella di servizio si apre, cigolante, e due grandi occhi scuri lo fissano. In attesa, senza dire una parola.
— Sono il cavaliere Riccardelli. Ho un appuntamento con la rabdomante.
Il suo tono è insicuro. Sembra più una domanda che una presentazione, mentre stropiccia senza accorgersene le falde del copricapo.
La donna apre il piccolo portello alla sua destra, con un movimento lento e misurato. L’intero portone di legno non viene spalancato da quasi un secolo, da quando cavalli e carrozze passarono di moda. Il Cavaliere, lungo come le sofferenze della via crucis e ormai smagrito da un’incessante pena, deve piegarsi per attraversare il passaggio basso. Una volta sollevata la testa, egli è inondato dal sorriso naturale della signora Anna, dono di pace capace di alleviare il peso delle anime irrequiete. Avrebbe voluto rispondere a quel sorriso con la bocca, con gli occhi, con le orecchie, ma sarebbe stato come tentare di afferrare il cielo con le mani: un gesto che ormai non sa più compiere, dimenticato nelle angosce degli ultimi anni. La donna veste un semplice ma elegante abito blu, appena sotto il ginocchio, con un colletto di pizzo bianco che racchiude un’innocente grazia giovanile. La sua acconciatura, un caschetto con ampia frangia, esalta i suoi lineamenti etruschi, i grandi occhi marroni e la simmetria del volto. Non ha trucco, né indossa gioielli o collane che, a pensarci bene, sfigurerebbero sul suo lungo collo.
— Buonasera Cavaliere, la stavo aspettando. Mi segua.
Il Cavaliere segue il lieve passo della signora Anna, attraverso la scala di marmo grigia logorata dal tempo e dalle antiche visite che la casa, creatura viva, respirante dai suoi legni laccati e dalle sue stoffe preziose, ha ospitato nei secoli. Giunti al primo piano, la donna si fa da parte con grazia, lasciandolo varcare la soglia del salotto. Al Cavaliere basta muovere qualche passo all’interno, perché venga abbracciato dalla dolcezza dell’ambiente: la carezza della boiserie avorio, riscaldata dalla luce proveniente dalle tre lampade laccate blu cobalto, e il divano bianco, dai delicati intagli dorati, sono la dote di un’epoca lontana che la signora Anna preserva con amore. Il Cavaliere lascia vagare lo sguardo, rapito, sulle poltrone con le cimase a coroncina, che sembrano attendere pazienti il loro scopo; poi scivola sulla cassettiera intarsiata, dall’altra parte della stanza, ammiccante nei suoi riposti scomparti, di passionali lettere, di memorie d’amore, di un tempo mai del tutto passato. Nell’angolo un pianoforte verticale di chiara origine francese tace, ma la sua presenza evoca le passate serate danzanti nella casa che ancora aleggiano tra le mura.
Tutto, in quella stanza, è elegante e mai ostentato, prezioso e mai superfluo. È la signora Anna: la sua essenza incarnata dentro quelle mura profumate di lavanda, che trascina il Cavaliere dentro il suo riparato asilo. La signora Anna attende paziente che il Cavaliere, visibilmente colpito dall’incantevole ambiente, le passi capotto e capello.
— Mi scusi — dice mortificato — non so proprio dove abbia la testa oggi — e si sbriga a togliersi il pastrano e a passarle il tutto.
— Ha fatto un buon viaggio, Cavaliere? Spero che non sia stato troppo faticoso. — gli chiede con garbo la donna, mentre si siedono comodamente in salotto: lei sulla poltrona e lui sul divano nobile.
— Un po’ lungo. Non è uno scherzo arrivare dalla Sicilia, mi creda; per questo come le avevo detto al telefono, volevo approfittare di alcuni affari che dovevo sbrigare qui a Roma per venirla a trovare.
Il naso della donna si arriccia, impercettibilmente, ma ella non interrompe il discorso del Cavaliere continuando ad ascoltarlo con interesse.
— Mi ha dato il suo nominativo Eugenio Possenti. Due anni fa lo ha aiutato per quella faccenda della figlia. Si ricorda? Ecco, io…
La signora Anna alza la mano sinistra all’altezza del cuore, questa volta deve proprio fermare l’uomo: — Sono stata molto chiara per telefono. Le avevo detto che non mi occupo più di quei casi, Cavaliere. Mi dispiace se ha fatto tanta strada, ma non posso. Mi creda, non posso proprio.
— Sì, lo so… ma vede, Signora, io sono un uomo finito. Lei mi deve aiutare, la prego.
La donna si scurisce in volto, perdendo la sua indole bonaria; non le piace essere manipolata, specialmente dagli uomini.
— Mi aveva detto che aveva da sottopormi un altro problema. Se non è così: stiamo perdendo tempo.
— La prego. Sono venuto apposta da Catania. Non so più a chi altri rivolgermi.
— Finora, questa è la prima cosa vera che mi ha detto.
Non sono i sotterfugi del Cavaliere che adesso catturano l’attenzione della signora Anna. Le sofferenze di quell’uomo ella riesce a percepirle, in modo tangibile, come secrezioni nauseabonde: il plasma violaceo che si sprigiona dalla sua figura smunta e spossata è il risultato di una ferita purulenta, che sanguina e scava senza sosta dentro la sua anima.
La rabdomante attraversa l’ampia sala fino alla cassettiera. Estrae da un tiretto un ciondolo a lei estremamente caro. È un oggetto privo di valore apparente: solo una catenina di corda, conciata e temprata dal lavorio del tempo, legata a una pietra di travertino con nodi infantili, ormai levigata dal continuo contatto con le sue mani. La prova tangibile e silenziosa della sua esistenza. Eppure, quell’oggetto, così insignificante agli occhi di un estraneo, ha un valore inestimabile per la Signora Anna, che lo custodisce gelosamente da tanto, tanto tempo. La sua vita è legata a quel ciondolo e lei ricorda perfettamente il giorno in cui il destino glielo affidò.
Abitavano ancora al paese. I genitori, la sorella il povero fratellino erano ancora vivi. Il padre, che tutti chiamavano bonariamente sor Domenico, tre anni prima, aveva comprato un pezzo di terra e, con le sue mani, vi aveva costruito una cascina per tutta la famiglia. Ma, il problema di quell’appezzamento era la mancanza totale d’acqua. L’acqua, abbondante in tutta la valle, sembrava avere in spregio il loro podere. Così, erano obbligati ad attingerla dal pozzo del vicino. Ricordava le lunghe scarpinate per riempire i secchi, sempre tanto pesanti, che spesso le cadevano di mano, costringendola a tornare indietro. Ma la generosità del confinante non bastava a soddisfare i bisogni dei due campi, specialmente durante l’estate. E, sebbene il padre avesse scavato ogni angolo di quell’infame terreno durante tutto l’inverno, rimettendoci la salute e imprecando ogni sera che si riponeva a casa, la falda non si riusciva proprio a trovare. Fu allora che, parlando con il cugino Massimo, possedeva una cascina molto più su, dalle parti di Cincischiaie, il sor Domenico venne a sapere di un certo Franco: un famoso rabdomante che aveva trovato l’acqua per molti contadini del posto. Il padre della signora Anna, tra bestemmie e imprecazioni, si era quasi rassegnato che non ci passasse acqua nel suo terreno. Lo sapea Iddio che malidizzione c’era attaccata, andava ripetendo*.* Però, decise di provare per l’ultima volta, facendo venire il rabdomante di giovedì, proprio sotto la luna piena, come gli era stato suggerito. — L’acqua s’ciappa più faciule quanno le potenze se 'ncrociano, capito? — si era raccomandato il cugino che di quelle faccende era pratico. Il Franco era il tipico contadino, come suo padre: mani callose e cuore grande. Il compenso fu pattuito, davanti a un bicchiere di vino, in un maialino da latte di quattro chili che il rabdomante aveva subito adocchiato visitando la proprietà. Il patto prevedeva, però, che il maiale sarebbe stato consegnato solo se avesse trovato la falda acquifera a una profondità non superiore ai trenta metri; altrimenti non se ne sarebbe fatto nulla, e amici come prima. Si avvicinava la primavera, e le giornate iniziavano ad essere tiepide e senza pioggia. All’epoca, la signora Anna doveva compiere dieci anni a giugno.
Da tutta la mattina, osservava il babbo, insieme a un altro uomo che non aveva mai visto, avvicinarsi a lei, mentre giocava davanti alla casa, per poi scomparire in qualche angolo sperduto della vallata, un luogo dove le era proibito andare. Poi risalivano l’erta sbuffando, con le camicie sempre più sudaticce e i volti sempre più rubizzi. Una volta tornati vicino la casa, scendevano di nuovo, borbottando frasi che non riusciva a sentire, perdendosi nella parte della proprietà non ancora coltivata.
Erano buffi e stravolti, mentre seguivano, obbedienti, il bastone curvo che l’uomo sconosciuto teneva con entrambe le mani, solenne, come il prete con il crocifisso quando veniva per la benedizione di Sant’Antonio.
— Nun c’è l’acqua. Te lo dissi e nun c’èe. Ce l’è poco da fa’. Ho da fa’ fagotto e cercarmi n’altro pezzo di terra, maremma cara — udì Annuccia sbraitare il babbo, mentre risalivano il pendio.
— Sor Domenico, ‘n attimu ‘e pacienza! — lo pregò il Franco.
— Ma se so’ du’ ore che s’ sale e si scenne! Che cerchi, i fichi su’ pe’ peri?
Il Franco si rodeva, non capiva cosa stesse accadendo. Non gli era mai successo una cosa del genere in tanti anni di attività. Lui, l’acqua, la trovava sempre. Be’, quasi sempre. Però, erano casi rari: gli era capitato un paio di volte di bucare, forse tre, se si contava il terreno delle “Vignaiole”, ché l’acqua quando sortì fuori aveva la portata di un vaso da notte e non ci si potevano bagnare neanche i pomodori. Ma stavolta… No, stavolta le sue sensazioni erano altre, ben maggiori. Qualcosa lo richiamava verso la casa padronale, e non poteva ignorarlo.
— Ma 'un sarà che c’avete costruit’ la casa sopra la falda? A me l’olmo me punta sempre lì. E anco ‘r metallo, guardate. — e così, posò la bacchetta d’olmo e prese quella di rame dalla sacca di iuta che portava sempre a tracolla. Alzando il braccio in aria la fece roteare libera. Appena la bacchetta si arrestò, fece un movimento lento e preciso, orientandosi proprio verso la direzione della casa. Poi, ostinato, il Franco salì ancora più in alto. Superò l’abitazione, le diede le spalle e, eseguendo gli stessi gesti di poco prima, l’inspiegabile si ripeté: la bacchetta puntava nuovamente verso la casa, nonostante il rabdomante avesse cambiato orientamento.
— Aveste vistu? — continuò — Io ‘un me ce capacito, e so’ quarant’anni che fo ‘sto lavoro.
Il Franco, per ulteriore riprova, si spostò di altri dieci metri verso il sole. Ma, il sor Domenico era stanco di tutte quelle inutili tentativi, che gli avevano fatto perdere una giornata di fatica. E, soprattutto, era giunta l’ora del pranzo e quel salire e scendere gli avevano messo una fame che magna va .
— Annuccia, finiscila di ruzzà e va’ ad aiutà tu’ madre pe’ ‘r pranzo. — urlò sor Domenico alla figlia. Poi, rivolgendosi al rabdomante: — Non t’intintisechì, vie’ a mangiattè na cosa prima de ripartì.
Il Franco, però, non era abituato a demordere. Ne valeva della sua reputazione. Fece roteare di nuovo la bacchetta di rame in aria. Questa volta il metallo non puntò verso la casa, ma ricalcò lentamente il percorso di Annuccia: dapprima l’accompagnò verso il catino vicino alla stalla dove stava andando per lavarsi le mani, e poi la seguì a ritroso mentre imboccava la porta di casa per aiutare la madre.
I due uomini si guardarono increduli.
— Annuccia, vieni subbito quì, sbrigate! — urlò il padre in modo da farsi sentire dalla figlia all’interno della casa. La bimba si affacciò alla porta e il sor Domenico si sbracciò facendole segno di avvicinarsi.
— Anna, puoi mettete là sotto, vicino a quell’olivo? — le chiese con garbo il rabdomante.
L’ulivo era cento metri più in basso, verso la vallata. Le era proibito allontanarsi troppo dalla cancellata, perché doveva restare a vista della mamma, sempre affaccendata col fratellino appena nato in casa. Anna cercò l’approvazione del babbo. Il sor Domenico annuì e Annuccia, tutta felice per la nuova concessione, saltellò canticchiando fino all’ulivo indicato dal Franco.
La bacchetta, che poco prima aveva indicato chiaramente la casa proprio da quel punto, ora si ostinava verso la bambina.
Il rabdomante afferrò anche la seconda bacchetta di rame e, tenendone una per mano con i gomiti aderenti al corpo come fossero due pistole, le lasciò seguire il loro percorso. Più volte cercò di ingannarle: cambiò direzione, fece un paio di svolte a caso, ma le bacchette continuavano imperterrite a convergere sull’ulivo.
Quando i due contadini furono ormai a pochi centimetri da Anna, le bacchette di rame si incrociarono
— E mo’ questo che vòle dì? — chiese il sor Domenico.
— È raro. Le bacchette, attraversu me, so’ sensibili ai campi elettromagnetici e la bambina è tutta attraversata da ‘na forza forte — disse il rabdomante grattandosi la testa — Forse, ce indicano la soluzione, ma un so’ sicuro.
Annuccia, sentendosi esclusa da quelle parole da grandi che non comprendeva e trovava noiose, iniziò a giocherellare con un sasso di travertino scintillante, che teneva sempre nella tasca del vestitino. Qualche mese prima, imitando il padre, aveva scavato diverse buche nel terreno, finché non aveva trovato un grosso masso che, appena sfiorato, si era frantumato in tanti pezzetti di panna scintillante. Eccitata dalla scoperta del suo piccolo tesoro, aveva raccolto tutte quelle pietre preziose e le aveva nascoste in segreto nelle tasche. Poi, la sera, le aveva ammirate una per una, immaginando di essere una principessa e quelle pietre i suoi gioielli più preziosi. Una pietra sbrilluccicava sopra tutte: era il pegno del principe azzurro. Doveva tenerla sempre con sé, in attesa del suo ritorno dalle crociate. Allora, il Principe l’avrebbe sposata e avrebbe incastonato quella pietra preziosa nella sua corona da regina, come segno del suo eterno amore.
— Che bel sasso che c’hai. Posso vedèllo? — le chiese il Franco.
Annuccia si schernì, chiuse la mano e corrucciata esclamò un più che convinto diniego.
Il sor Domenico rise, conoscendo la cocciutaggine della figlia: — Dai, Annuccia. Fallo vedè a ‘r signore.
Il rabdomante bloccò le insistenze del padre con un gesto della mano. Dal taschino della giacca, ormai avvolta come un cencio sudato al braccio sinistro, cavò uno spago di iuta bianco candido e lo diede all’Annuccia.
— Nun devi dà mai a nessuno quel sasso. Dovrà toccà solo le tue mani. Me hai capito? Legalo co’ ‘sto spago. — le raccomandò il Franco, serio in volto.
Annuccia ubbidì, stringendo la corda tra il pollice e l’indice e ammirando soddisfatto il suo nuovo ciondolo.
— Mo’ pensa all’acqua, solo a quella, e segui ‘r pendolo.
Annuccia non aveva ben capito, ma cercò di fare come gli era stato ordinato. Si mosse, a caso, di una decina di passi verso est e, improvvisamente, il pendolo iniziò a girare su se stesso. Si bloccò, meravigliata dalla vita propria di quell’oggetto sotto le sue dita. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette e otto volte il ciondolo roteò pimpante sopra il punto in cui lei si era fermata.
— L’acqua è qua sotto a ott’ metri e ce n’è un sacco, proprio un sacco: Dire’ almeno trecento litri ‘gni minuto — sentenziò il Franco, scavando due solchi a forma di croce con il tacco dello scarpone e impilandoci al centro dei ciottoli che aveva trovato lì vicino. — È meglio che dopo venite a piantacce un palo pe’ nun perde’ 'r punto.
Quella sera, Annuccia non riuscì a prendere sonno. Il pensiero andava sempre al ciondolo che aveva messo sotto il cuscino. Lo prese e, scalza, per non svegliare nessuno, si aggirò per la casa, tenendo il gioiello tra il pollice e l’indice, come le era stato insegnato, sperando di vederlo di nuovo muoversi da solo. Le parole sommesse del babbo e della mamma, nella camera da letto, catturarono la sua attenzione.
— Pecchè je hai dato ‘r maiale? — chiese la Lucia al marito.
— E pecchè, e pecchè? Che vòi che tutti sappino che nostra figlia è ‘na strega? Semo rimasti in sto’ modo co’ Franco che nisciuno deve sapè che è avvenuto oggi.
La Lucia si fece il segno della croce. Proprio a loro doveva capità 'sta maledizione , pensò*.*
È a quel ciondolo, che la Signora Anna, da quarant’anni, affida il controllo delle sue sensazioni. Una prova di quelle vibrazioni che l’universo le incarica di decifrare, da quando il padre e la madre iniziarono a guardarla con gli occhi dell’ignoranza e della paura e smisero di chiamarla Annuccia.
— La prego di stare fermo, di non pensare a nulla. — gli intima la signora Anna, mentre da dietro le spalle del Cavaliere fa scivolare il pendolo sopra la sua testa ormai prossima alla calvizie.
Il Cavaliere Riccardelli, anche se a disagio, comprende che non deve sollevare obiezioni se vuole che la rabdomante prenda in considerazione il suo problema. Passa qualche minuto e poi la signora Anna torna a sedersi sulla poltrona.
— Voglio che sia chiaro: non ho ancora deciso di occuparmi del suo caso. Mi racconti cosa la preoccupa, senza altre menzogne, e deciderò in seguito.
Il Cavaliere annuisce. Cerca le parole giuste, ma non ci riesce: gli escono tutte insieme e in modo disordinato:
— Mia moglie mia moglie è impazzita Mi scusi non avevo nessun appuntamento al Ministero Da quando nostro figlio è morto… — scuote la testa cercando di trattenere le lacrime — Appena provo a toccarla si mette ad urlare Dice di parlare con la Madonna Non posso farle neanche una carezza che diventa isterica Sono stato perfino costretto a segregarla in camera e toglierle qualsiasi oggetto potesse usare per ferirsi Aveva iniziato a flagellarsi e a tagliarsi perché diceva che voleva espiare i peccati dell’umanità. Sei mesi fa… mio Dio! — esplode il Cavaliere che nello stesso momento prova vergogna a parlare della moglie in quel modo.
La signora Anna gli prende le mani: — Con calma, mi spieghi tutto con calma: non abbiamo fretta. Cosa è successo sei mesi fa? — cercando di placare tutte quelle emozioni che premevano per uscire fuori dal petto dell’uomo.
Il Cavaliere rincuorato dalla benevolenza della signora Anna continuò:
— Sentii delle urla provenire dalla sua camera. Erano urla terrificanti e mi precipitai al piano di sopra, nelle sue stanze. Quando aprii la porta, trovai tutti i libri — avevo fatto installare una piccola biblioteca nella sua camera, lei capisce: per farle passare qualche ora lieta, dicevo… — Sì, quando entrai la stanza era rivoltata, messa sottosopra. Aveva strappato tutte le pagine dei libri come fossero coriandoli. Non ne aveva risparmiato nemmeno uno; e lei, quella sciocca, si era ferita il braccio sinistro con un pezzo di specchio che aveva rotto dalla sua toilette. Continuava a urlare che il demonio aveva cercato di afferrarla e poi, il Diavolo, infuriato, aveva strappato le lettere che la Madonna le aveva scritto. Mi mostrava orgogliosa i segni sul braccio come fossero ferite di guerra. Ferite di guerra, capisce?
— L’ha portata da un medico, spero bene?
— Da un medico? L’ho portata da tutti i migliori medici. Siamo stati anche a Milano da un luminare che si dicono meraviglie. — le risponde. Poi il Cavaliere, stordito, rimugina in silenzio sulle parole appena pronunziate, fissando le modanature della poltrona.
— Continui. Cosa vi ha detto il Dottore? — lo sprona la signora Anna.
— Che mia moglie è schizofrenica e che non esiste cura. E, se lo desideravo, potevo farla internare, anche immediatamente nel loro frenocomio.
— Cosa non mi sta dicendo? Ricordi il nostro patto, Cavaliere! — lo ammonisce la rabdomante.
Il cavaliere Riccardelli scuote la testa: — Anche se il dottor Maletti mi aveva assicurato che la Casa di Cura Santa Maria era un luogo ideale per il trattamento morale e terapeutico di mia moglie, e che l’ambiente ordinato e tranquillo l’avrebbe aiutata a recuperare la capacità di partecipare alla vita sociale, io avevo visitato uno di quei frenocomi tanti anni fa, per una causa che peroravo al Tribunale di Catania. Ne ero uscito inorridito. Stravolto. Quelli sono posti inumani, mi creda. Allora, prima di farla internare, provai un altra strada: chiamai un prete esorcista.
La chiesa si trovava a otto chilometri dal podere. La domenica il padre della signora Anna caricava tutti sul carretto e, insieme, andavano a messa nella chiesa rurale di San Michele. Un parroco veniva apposta dal capoluogo per amministrare i sacramenti e la prima domenica di ogni mese officiava, al bisogno, anche i battesimi per i neonati della valle. Dopo la messa, nessuno ripartiva subito per tornare a casa. Era consuetudine rimanere insieme per una merenda frugale. Ciascuno portava qualcosina da mangiare: chi del cacio, chi delle finocchiona, e c’era chi portava delle morbide pagnottelle sfornate la mattina prima di partire per la messa. E naturalmente, tutti avevano con sé almeno un paio di fiaschi di vino. Le donne apparecchiavano sulle panche di quercia che si trovavano nel crocevia fuori dalla chiesa. C’erano sempre state quelle panche, eredità contadina di una tradizione che si tramandava da troppo tempo per sapere chi l’avesse iniziata. Gli uomini ne approfittavano per qualche affare, — e Dio certo li avrebbe perdonati se, nel giorno a lui dedicato, cercassero di mandare avanti la famiglia — vendevano maiali, si accordavano sul prezzo dell’olio al mercato, e scambiavano giornate di lavoro per aiutarsi nelle fatiche più ingrate.
Il legame di quella comunità, dispersa in quella magra valle, fatta di gente che lavorava duramente ogni giorno come bestie per trasformare quel suolo ciottoloso in terra fertile, dove far crescere i loro numerosi figli, e che non aveva tempo per le visite di cortesia, si rinsaldava così: nei pomeriggi di quelle domeniche, trascorse nell’allegria e nella partecipazione.
E anche il sor Domenico, che era un comunista convinto e mai nessuno aveva visto comunicarsi, ritrovava la propria indole giocosa e bonaria, dimenticando per poche ore il travaglio che l’attendeva nei campi. Sopratutto, egli era felice di rivedere il cugino Massimo. Erano stati inseparabili, come fratelli, fino ai quattordici anni , quando i loro padri, fittavoli e soci di una cascina verso Monte Rippare, erano stati cacciati via dall’oggi al domani, perché comunisti, e dovettero perfino ringraziare di averci rimesso solo la terra e non la pelle. Per fortuna, un certo Mutti era divenuto capomanipolo. Anni prima, dopo la Grande Guerra, i loro padri avevano sfamato lui e la sua famiglia, così li graziò e se la cavarono con qualche randellata e qualche costola rotta. Le due famiglie si separarono. Ognuno andò per la propria strada. Ma la vita e il caso fecero incontrare i cugini molti anni dopo in quella avida valle.
Erano appena giunti davanti alla chiesa, quando il Massimo, visibilmente turbato, si accostò al carretto e chiamò in disparte il cugino. Nel frattempo, Lucia e i figli entrarono per la funzione. I due uomini si allontanarono di una ventina di metri, per non essere ascoltati dagli altri che stavano arrivando per la messa.
— Domme’, che t’ha 'ppiccicato giovedì? — gli chiese angosciato il cugino.
Il sor Domenico intese subito che Massimo non si riferiva al pozzo, ma finse di non capire.
— Bel tipo ‘l Franco, m’ha trovato l’acqua ‘n un lampo. Anzi, c’ho bisogno de’ te pe’ scavà 'l pozzo. Ma tu dici che c’è proprio acqua dove m’ha ditto?
Massimo non abboccò. Non gli piaceva essere menato per il naso. Incrociò le braccia, e con la voce dura come la terra secca, disse:
— Tu dovresti chiederglielo alla tu’ figliola.
Il sor Domenico ebbe l’impressione di ricevere uno schiaffo, non solo dal cugino, ma dalla superstizione che impregnava l’intera valle, più ostinata e caparbia delle pietre che aveva dovuto spaccare in quegli anni per preparare la sua terra.
— E chi t’ha ditto ‘sto fatto?
Il pensiero del sor Domenico volò al paffuto maialino da latte che aveva regalato a quel vigliacco.
— Lo sapeano tutti. Che credevi? Che ‘l Franco, ‘a bocca più larga da ste’ parti, se ne stesse zittu?
Il sor Domenico digrignò i denti.
— E allora, che c’è di male? Un può esse’ che la mi’ figliola sia bona a trovà l’acqua come quel buccone?
Massimo lo guardò con un misto di pena e paura.
— None. Le donne 'un l’hanno 'sto potere. Solo ‘na sctrèga può avé ‘sti poteri maligni.
— Strèga? La mi’ Annuccia? Ma che t’ei scemato? Da quando cridi a ‘ste fesserie? — gridò. L’ira montava, cresceva, ribolliva come il sangue di un maiale appena sgozzato. E fu in quell’istante, proprio in quell’istante, che nel sor Domenico nacque una rabbia che non lo avrebbe più abbandonato. Neanche il giorno della sua morte, quando l’ultimo pensiero si posò sulla figliola, come una lagrima di rimpianto.
Il Massimo abbassò lo sguardo, ma continuò:
— Io ‘un ci credo, ma t’aggio avvertito. ormai lo sanno tutti. Ieri, al Fioretti, la ruggine nera ha fatto a pezzi ‘u raccolto, e già dicono che è colpa de’ to’ figliola. Se continui a fa’ finta di nulla, ti ritrovi tutti contro!
— E che c’è capa la mi’ figliola? — sibilò a denti stretti e coi pugni serrati, che il cugino doveva ringraziare la chiesa lì davanti.
Il cugino prese fiato e si liberò finalmente del sasso che gli gravava nello stomaco:
— Dicono che nel tu’ campo l’acqua 'un c’era, che l’ha inventata l’Annuccia. Ma 'u Diavolo ‘un regala niente, e c’è sempre un prezzo da paga’.
Allora, il sor Domenico se ne andò via imprecando, lasciando il Massimo dov’era, altrimenti non avrebbe risposto delle sue azioni. E i due cugini, cresciuti come fratelli, si separarono in quel modo, per sempre. Entrarono in chiesa ognuno per proprio conto, come Caino e Abele nel cuore. Il Massimo richiamò la moglie e i figli, e invece di sedersi sulla solita panca insieme alla famiglia del sor Domenico, si aggiustarono nella fila opposta, mostrando a tutti la loro posizione riguardo alla “strega”. Nessuno occupò quei posti; rimasero liberi per tutta la funzione.