Primo capitolo nuovo racconto "Il maestro"

Né io ho mai saputo quali fili muovessero la muda umana, che ogni notte si spoglia dei suoi cascami e sortisce nuova all’alba, racconsolata da tutte le sue tabe, né Don Pasquale, Professore in pensione dalla settima indizione, all’alba, coll’abbonamento ferroviario, quello tutto lindo, scrupolosamente rinnovato nel portafoglio, mai di non salire sul treno che lo avrebbe portato fino alla Stazione centrale, col suo nome chiaro e bello scritto in stampatello, ad ambulare tutta mattina all’interno dei suoi cancelli, battuti da un fabbro sconosciuto e privo di memoria, sforzandosi di tralasciare l’enormità del tempo, i razzi dal resto: tra iato della sua disoccupazione forzata e sfrido della morte.

Eppure, una volta inastato sul quel tronco da nuotatore fanatico secolare castagno madre del bosco e sottobosco sordo tra i filari ordinati dell’Ateneo commendatizio alle parole. Adesso. Più gibbo, meglio lunato nella camicia: abbatteva tutto grugnaculo, dentro la Stazione, fiorita, durante i giorni feriali, da pendolare pago, quel poco di tempo a lui confezionato dal puntiglioso sarto.

Con uno scarto fastidioso della mandibola, nel suo affezionato percorso, dirigere dapprima al bar e là, tirare fuori la prima delle cinque frasi che, forse, egli avrebbe pronunciato durante la giornata, dimentico della sua emottisi. Dopo il caffè, restava in piedi, immobile, nonostante qualche alzatuccia di ciglio poteva notarsi, nel largo piazzale degli arrivi, quello del dlin-dlon, bruciante, a virivirsi a vista ogni umana alcole. Non pensiate che quella di Don Pasquale fosse un’occupazione balorda o di senno: molti uomini, in special modo quelli che hanno avuto della vita la più attiva, dopo il pensionamento, assumono delle abitudini salvifiche, per spirito: come tale, prendendo quella decisione in maggior fortezza, dopo un solingo ragionamento, Don pasquale concluse di scivolare il tepido tempo rimastogli e preparare la sua personale inferie per accaparrarsi il favore… dei pagani che berteggiava da quando, soggiunsi gli undici anni, rapì la copia lieta d’Odisseo dalla intonsa libreria del padre. Stanteché, tranne quell’unicum salvato, li aveva di forza buttati via tutti dalla memoria, i libri, e solenudo si riavvicinava al mondo con l’unica affezione: spogliare la sabbia con un setaccio sciocco e privo di vanità.

Risaliva sul predellino e tornava alla sua casa, sopraggiunta l’ora della partenza, aggranchito dall’instancabile posa; cosa facesse del resto della giornata niuno degli esercenti, degli avventizi, dei barboni, dei ladri, dei perdigiorno, che lo notavano sempre con uno sguiscio divertito, potevano rispondere e, forse, neanche interessava, questi cinque: eternamente affaccendati dai rivolti delle lancette, essendo che Don pasquale, ombra mattinale, viveva entro il paesaggio loro consueto, rassicurandoli, costante orbe, con la sua faccia di mitria che non sapeva nemmeno ridere.

Accadde però un giorno, quando tutte le probabilità sono già accadute e accadranno, il Professore voltò il morione e i piedi l’uno davanti l’altro, del suo consolante sguardo, al di là, per raggiungere quell’indefinibile, parso innanzi.

Né se ne accorse il giornalaio, né il barista: appena la ragazza informazioni, da dentro il gabbiotto di verdanza metallica, registrò lo sfrigolio d’immagine del vecchio, prima del consueto orario, verso l’uscita, oltre i cancelli girevoli, al di là dell’ignota barriera metallica, dove respirava una necessità sconosciuta a tutti gli abitanti della Stazione.

Te lo dico, è dura da leggere: si torna immediatamente agli anni del liceo, tra Manzoni e qualche altro aulico rompiscatole ben più vecchio. Ti odieranno tutti.

Qui c’è qualcosa che non mi torna

Eppure, una volta inastato sul quel tronco da nuotatore fanatico secolare castagno madre del bosco e sottobosco sordo tra i filari ordinati dell’Ateneo commendatizio alle parole.

Sì, è un’accellerazione tra i periodi lunghi.

Io te lo dico: o stai partecipando a un concorso speciale, o pochi andranno oltre la quinta riga.

Letto tutto, ma onestamente è più confuso che sperimentale. Il lessico arcaico ci può stare, ma la costruzione balorda fa alzare i sopracciglia, soprattutto perché adesso non c’è molto da dire, quindi sembra buttato lì, senza scopo.
Ma più di tutti manca il novum, quindi di tutto il bello scrivere rimane solo un “embè?”