Se lo ricorda bene quel pomeriggio, il cavaliere Riccardelli, quando bussò alla porta della sua villa Don Luigino da Dio, insieme agli altri due prelati in abiti scuri. Spinto dalle insistenze della signora Anna, decide finalmente di raccontare la storia dall’inizio.
“Avevo accondisceso alle suppliche delle zie di mia moglie: mi convinsero che sotto le turbe di Maruzza ci fosse la zampa del demonio. Con il mio beneplacito si recarono alla Diocesi, insieme al parroco del paese, per discutere con il Vescovo della mia situazione. Non capisco come abbia potuto assecondare quelle beghine nel loro proposito, ma ero in un tale sconforto da aggrapparmi a qualsiasi possibile soluzione. Qualsiasi. Avrei fatto – e farei ancora – di tutto pur di alleviare, anche solo di poco, la pena che stava distruggendo mia moglie. Comunque, il mio nome ha un certo peso nella provincia, e le mie donazioni alle cause della Diocesi aprirono facilmente le porte dell’ufficio di sua Eminenza. Così, il Vescovo promise di mobilitarsi senza indugio. La soluzione prospettata mutò, per me, in quei giorni, in una febbrile attesa; si trasformò in una smania insofferente, paranoica, che si alimentava di sé stessa nella promessa della salvezza mia e di Maruzza. Finalmente, dopo una settimana, ricevetti la visita di tre prelati. Il più giovane era il pupillo di sua Eminenza, nonché uno degli esorcisti più promettenti, distintosi per la sua fede granitica e i suoi continui successi. Questo lo seppi il giorno dopo la visita delle zie, durante una telefonata che mi fece personalmente il Vescovo per impartirmi la sua benedizione e ricordarmi che eravamo sempre nelle sue preghiere. Perfino il Papa, mi disse con malcelato orgoglio, volle conoscerlo l’anno prima e gli concesse un’udienza privata a Roma. Eppure, appena lo vidi, quel Don Luigino da Dio non mi destò un’impressione favorevole. Anzi, sentii le mie aspettative crollare di fronte alla sua misera complessione. Non credo superasse i trentacinque anni, eppure la calvizie precoce e gli spessi occhiali, che evidenziavano una miopia al limite della cecità, lo facevano somigliare a uno di quei miti parroci di paese più avvezzi ai peccati veniali delle vecchie comari che alle furie dell’inferno. L’incarnato canarino e la corporatura minuta e ingobbita, forse dai troppi anni chini sui breviari, stridevano con la gagliarda immagine di un combattente di Dio che sua Eminenza mi aveva largamente elargito. Però, devo ammettere che il suo carattere mite e semplice, la pacatezza quasi ascetica, e le parole rassicuranti che mi rivolse durante l’incontro, prima di salire da mia moglie, acquietarono per un poco la mia anima, ormai ammorbata da un perenne turbamento. I tre anni di malattia di mia moglie, come può rendersi conto, mi avevano ridotto l’ombra di me stesso.
— Questa è solo una visita di conoscenza. Mi creda, Cavaliere, la pratica dell’esorcismo è un evento raro. Spesso la fedele è solo smarrita e ha bisogno unicamente di una guida che la riporti ai suoi affetti. — mi confortò Don Luigino in salotto, prima di salire nelle stanze di Maruzza.
E, quando aprimmo la sua porta, dopo che bussai parecchie volte alla sua porta senza avere ricevuta risposta, la trovammo completamente ignuda, supina sul pavimento. Aveva fasciato le mani e i piedi con delle pezze ricavate dalle lenzuola strappate. Il suo corpo si contorceva convulsamente in spasmi di tormento. Mi precipitai a soccorrerla, sebbene mi resi subito conto che non c’era sangue né su di lei né sul pavimento. Fortunatamente, anche sotto quelle raffazzonate bende non aveva alcuna ferita. Per pudicizia i preti rimasero sulla soglia della camera da letto. Non mi rimase che coprire la sua nudità con una coperta, sollevarla di peso e metterla sulla bergère da riposo.
— Mi ha concesso le sue sofferenze, — mormorò Maruzza dentro un sussurro — ma non puoi vederle, solo chi crede può vederle!
Intuii che si riferiva alle sue fantomatiche stimmate. Credeva di essere stata segnata con le piaghe della Passione e che il Cristo vivesse in lei.
Don Luigino da Dio si fece avanti. Appena mise piede nella camera, il volto di mia moglie divenne livido e sprezzante.
— Lupo travestito da agnello! — urlò Maruzza quando giunse al suo capezzale — Vattene, Satana! Sta scritto: adora il Signore Dio tuo e a Lui solo rendi culto. Io ti vedo e sputo sul tuo sacrilegio. — E sbraitando lo colpì con uno sputazzo in pieno viso.
Poi, feci appena in tempo a trattenerla per le spalle. Nonostante la spingessi con tutta la mia forza e il peso del mio corpo contro la spalliera della poltrona, faticavo a contenere la sua furia. Voleva cavargli gli occhi con le unghie. Si dibatteva e urlava. Scalciava e cercava di divincolarsi dalla mia presa. Allora, Don Luigino estrasse dalla tasca del suo abito un ampolla d’acqua santa e gliene spruzzò addosso un’abbondante quantità.
Questa azione la fece acquietare. Anzi, posso affermare senza timore d’errore che, addirittura, ella si beò di quella doccia santa. Si irraggiò tutta di una felicità che non le avevo mai visto. Con una calma nuova, intimò a Don Luigino:— Tu non hai autorità prete, che il Dio che fingi di servire si è rivelato a me, a me soltanto. Vattene dal tempio con i tuoi commerci.
— Allora, prega per me, figliola? — rispose Don Luigino, impugnando il grande crocefisso che portava appeso al collo e stringendoci sopra le mani di Maruzza. Lei, ancora più rapita, unì la sua voce alla preghiera. Recitarono per tre volte il Pater Noster , e si accodarono gli altri due preti che, sgomenti, erano rimasti all’ingresso della camera. In tutta onestà, devo confessare che non mi capacitavo di cosa stesse accadendo. Ero inebetito, travolto dai repentini mutamenti d’umore di Maruzza. Vivevo la scena come se fossi a teatro durante una tragedia di Pirandello.
— È meglio lasciarla riposare, ora — mi ordinò Don Luigino da Dio al termine dell’orazione e invitò tutti a uscire dalla stanza.
Ritornati in salotto, mi parlò col cuore in mano:
— Cavaliere sua moglie non è posseduta. Mi creda e ringrazi il Signore nella sua Misericordia. Se posso darle un suggerimento: è meglio che cerchi nella scienza i mali che affliggono la sua Signora. La signora Maria ha bisogno di cure morali, che solo un buon medico può darle. Dio, sono certo, avrà misericordia di tutti voi. Ma, lei deve essere il primo a dimostrarsi forte per sua moglie. Coraggio. Coraggio. Vuole che chieda a sua Eminenza di aiutarla a trovare uno specialista per sua moglie? — e in questo modo si congedò, dopo aver benedetto la casa dal soggiorno.
Purtroppo, quella visita scatenò nuove nevrosi, più pericolose delle precedenti. E fu solo colpa mia, perché permisi all’esorcista di venire nella mia casa, eccitando la mente disturbata di mia moglie e provocandole altre sofferenze. Ma, signora Anna, lei deve capire che io lo feci per il bene di Maruzza. Se solo l’uomo potesse vedere gli effetti di tutte le terribili decisioni che deve prendere nella vita, quante pene non cicatrizzerebbero sul suo debole cuore.
Le settimane che seguirono furono le più improbe. Non potei più assentarmi da casa e affidai i miei assistiti ad un collega per rimanerle vicino. Le crisi che seguirono furono ancora più strazianti. Spesso, veniva a trovarla il Grande Male, e io non potevo fare altro che tenerla stretta, aspettando che tutto finisse. Poi, per un attimo, un barlume, una frazione di secondo, prima che il baratro della follia la risucchiasse, mi sembrava che i suoi occhi ritrovassero la loro dolcezza naturale. Ma, la pazzia la riacciuffava subito. Ormai, si rifiutava persino di uscire dalla sua camera. Furono inutili tutte le mie insistenze a prendere una boccata d’aria salutare, anche per pochi minuti. Così, finii per essere recluso con lei. Feci mettere nella sua stanza una chaise longue, in modo da poterla sorvegliare anche durante la notte. Poi, tutto precipitò. Iniziò, poco a poco, a digiunare. Non mangiava quasi più nulla e questo la rese ancora più isterica. Aveva continui eccessi d’ira. Inveiva contro tutti. Lanciava qualsiasi oggetto avesse tra le mani. Io non mi fidavo neanche di rivolgerle più la parola. La Nina, la cameriera che avevamo a servizio da anni e che mia moglie aveva cresciuto come una figlia, fu malmenata da Maruzza, solo perché cercò di convincerla a mangiare un brodo caldo preparato con le sue mani. Fu allora che mi rassegnai e decisi di portarla a Milano, dove il professore Maletti la internò nel frenocomio. E dove, adesso, Maruzza vive.”
Non uno aiutò il sor Domenico a preparare il terreno per la semina del mais. Né qualcuno bussò alla sua porta per chiedergli aiuto. E a maggio, chi lo avrebbe aiutato col grano? Nessuno comprava più i suoi maiali e la sua verdura al mercato marciva, qualsiasi prezzo chiedesse. All’inizio, andarono avanti con i pochi risparmi, ammazzando gli animali da vendere, ma non potevano continuare in quel modo. Presto i maiali sarebbero terminati e non avrebbero avuto i soldi per i sementi del prossimo anno.
Poi una malattia degli ulivi colpì tutta la valle. Non importava che la stessa malattia si fosse presentata dieci anni prima, quando il sor Domenico non abitava lì, ed Annuccia era ancora in fasce. Tutti davano la colpa alla bambina strega, la figlia del sor Domenico.
— Ha scritto mi’ frate’ dalla città — gli disse Lucia, mentre i ragazzi stavano dando il pappone ai pochi maiali superstiti.
— Salutamelo, e digli che s’è fatto un po’ tardi pe’ scriveme!
Scherzò il sor Domenico, cercando di chiudere la questione senza litigare con la moglie. Qualche settimana prima, Lucia aveva già accennato, all’eventualità di far ospitare Annuccia dal fratello per qualche tempo.
— Non fa’ lo scemino. Le cose stanno andando storte. Facciamo passare un po’ de’ mesi, vedrai che se ne scordano de’ tutto. In fondo, Annuccia in città può andà a scola e imparà a scrive’ e compitá.
— Dovrei dà via mia figliola pe’ quattro asini superstiziosi? Ma famme 'l favore!
— Abbiamo pure altri due figli da cresce’. E mi’ frate’ sarebbe contento de’ badà ad Annuccia pe’ qualche tempo, che lo sai, 'un ha avuto figli dalla moglie.
Sor Domenico non rispose. Lucia si accorse che il marito stava per cedere e ne approfittò subito: — Dome’ è la cosa migliore. Stamme a sentì. Poi, famo na prova, no? Mandamo Annuccia da Rinaldo pe’ l’estate. Guarda! — estrasse dal cassetto del comodino la lettera che aveva ricevuto dal fratello, al cui interno c’era un biglietto di sola andata del treno — M’ ha mandato pure 'u biglietto, sa che 'un ce la passiamo bene ultimamente.
Il sor Domenico, ormai sconfitto, si coricò dando le spalle alla moglie e, mordendo il cuscino, emise un suono simile al grugnito di uno dei suoi maiali prima di essere macellato.
Il mattino seguente, ad Annuccia fu spiegato che per il suo regalo di compleanno avrebbe passato l’estate al mare dallo zio. Il giorno della partenza la madre la strigliò a dovere nella vasca di metallo, la spazzolò per bene, le mise il vestito delle feste e il fiocco giallo sui capelli neri. Partì insieme al padre verso il capoluogo con il carretto. Era tutta felice. Non aveva mai visto il treno, né il mare. Però le dispiaceva passare il compleanno lontano dai genitori. Non capiva perché, parlando dello zio, gli occhi del padre si facessero lucidi. La mamma non era venuta con loro perché doveva badare al fratellino, ma l’aveva salutata con un abbraccio lungo, così lungo. E non era da lei, perché di solito non l’abbracciava mai. Salutava il padre dal finestrino del treno. Era felice: le avventure la divertivano. Ebbe un palpito, quando il treno iniziò a muoversi, ignara che tutta quella velocità l’avrebbe portata via per sempre dalla sua casa.
La signora Anna intrecciava la sua storia con quella di Maruzza, mentre ascoltava il racconto del Cavaliere. Come lei, Maruzza era stata cacciata dai suoi affetti, allontanata e condannata a soccombere per volontà del destino e degli uomini. Lei sapeva cosa volesse dire essere abbandonata perché troppo scomoda, cancellata dai cuori di chi amava perché ritenuta un problema.
— Basta Cavaliere, ho capito. — lo ferma, non potendo sopportare ancora. — Va bene, l’aiuterò, ma dovrà fare quello che le dico, alla lettera.
La signora Anna prende dalla tasca il pendolo e lo mette con cura dentro una sacchetta di cuoio. Conosce il potere accumulato in tutti quegli anni dal ciondolo ed è consapevole che, una volta ceduto al Cavaliere, potrà più aiutare nessun altro. Sarebbe stata la sua fine, il termine di quel lungo viaggio iniziato molti anni prima. Ma, non può abbandonare un’altra donna, imprigionata dai pregiudizi e dall’ignoranza. Maruzza sarebbe stata il suo riscatto finale.
— Cavaliere, lei non deve mai toccare il pendolo direttamente con le sue mani. È molto importante. Porti via sua moglie da quel luogo iniquo e recatevi in un bosco dove scorra una sorgente d’acqua. Poi, le tolga qualsiasi calzatura: i piedi devono essere a contatto con il terreno. Quando tutto sarà pronto, metta il pendolo nelle mani di Maruzza, lei non deve mai toccarlo, mi raccomando, e le dica di stringerlo forte, in modo che l’energia immagazzinata nel ciondolo fluisca dentro di lei. — dice, sospirando in silenzio, mentre dona il sacchetto di cuoio con dentro il suo bene più prezioso.
— È giusto che sia così, dopo tanti anni. Ora vada. Non ho più tempo per nessuno.
Il Cavaliere rimane interdetto per essere stato cacciato in quel modo. Vorrebbe fare tante domande, ma viene accompagnato alla porta con tanta fretta e brutalità da sembrare buttato fuori. Che modi incivili. Si sente uno sciocco per essersi confidato con una sconosciuta. Appena fuori, nel silenzio della via, si accorge di non aver nemmeno versato il compenso pattuito. Tanto meglio, pensa, almeno non si è lasciato truffare da quell’impostora, con quella sua albagia da prima donna. Come ha fatto il Possenti a consigliarlo così male? A proposito, è da molto che non lo frequenta; ripensandoci, quella sua telefonata improvvisa dopo tanti anni gli era sembrata un po’ strana. Che sia in combutta con quella donna per spillargli del denaro? Si vocifera che il Possenti sia indebitato fino al collo, proprio a causa della sua passione per il tavolo da gioco. Improvvisamente, lo colpisce il ricordo: il Possenti lo avevano trovato morto nella sua abitazione dieci anni prima. Si era sparato un colpo alla nuca, sopraffatto dai debiti.
Un brivido gli percorre la schiena.
Decine di occhi si affacciano. Ombre dietro le tende. Voci che lo chiamano, insistenti.
— L’avete vista? — bisbiglia qualcuno.
— Vi ha parlato? — insiste un’altra voce.
— Dicono che è bellissima, è vero? — mormora un altra.
— Avete visto il suo gatto?
— Come era vestita questa volta?
Il Cavaliere deglutisce a fatica. Si volta di scatto. Vede il portone del civico uno arrugginito e sbarrato da assi di legno all’esterno, come se qualcuno non volesse più che venisse aperto. Non è forse uscito da quella casa solo un istante prima? Ha parlato con la signora Anna per ore, ha visto il suo volto spegnersi quando gli ha donato il pendolo. Ma allora…
Un colpo di vento gli sferza il viso. Incredulo, tasta il sacchetto di cuoio nella tasca: è al suo posto.
Fugge di corsa.