Dalle dispute tra eruditi all’antiscienza - un articolo

Riproduco per intero, l’articolo che è a sua volta una riproduzione (e non vedo copyright, scusate).

Dalle dispute tra eruditi all’antiscienza *

Vincenzo Barone | 27 ottobre 2016 | Società, Storia | Nessun commento

Le “battaglie tra eruditi”, raccontava Jonathan Swift in un’operetta satirica del 1704, si concludono sempre con l’affissione in pubblico di trofei “noti al mondo con nomi diversi, quali: dispute, controversie, repliche, brevi considerazioni, risposte, osservazioni, critiche, obiezioni, confutazioni”.

Dopo essere stati esposti per qualche tempo, i trofei vengono trasferiti nelle biblioteche, “dove restano, in un’area specifica loro destinata, e da allora in poi vengono chiamati libri di controversie”. Come ricorda Giulio Giorello in un saggio del 1985 (da cui ho tratto la citazione swiftiana de La battaglia dei libri)[1], nel corso dei secoli la controversia in campo scientifico ha rappresentato essa stessa oggetto di controversia, essendo giudicata da alcuni come un incidente di percorso (Leibniz: “Quando sorgeranno delle controversie, non ci sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente – chiamato, se loro piace, un amico –: calcoliamo[2]), da altri come la via regia per il progresso delle conoscenze (Mill: “Se una verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile inventarli e munirli dei più validi argomenti che il più astuto avvocato del diavolo riesce a inventare.”[3]).

Conviene, anzitutto, restringere il campo semantico del termine “controversia scientifica”. Il filosofo della scienza Aristides Baltas suggerisce di porre sotto questa etichetta non tanto gli episodi di semplice disaccordo tra teorie, quanto piuttosto le dispute che non possono essere risolte ricorrendo ai canoni di indagine comunemente accettati da una comunità scientifica, e che anzi talvolta giungono a mettere in discussione tali canoni[4]. Secondo Baltas, le controversie scientifiche propriamente dette sono caratterizzate da un disaccordo sulle assunzioni di sfondo – quell’insieme di princìpi guida, credenze, idee e presupposti che connotano i programmi di ricerca e le filosofie spontanee degli scienziati, e il cui ruolo nella scienza è stato ampiamente riconosciuto dall’epistemologia post-popperiana. In questa accezione le controversie scientifiche oppongono quindi interi paradigmi teorico-sperimentali.

Le assunzioni di sfondo possono essere suddivise in due gruppi: quelle che riguardano la struttura concettuale e le interpretazioni delle teorie, e quelle che attengono agli stili di ragionamento, alle tradizioni di ricerca, ai sistemi di valori e di preferenze. Una controversia scientifica mette in gioco alcune, o molte, di queste categorie, e non riguarda solo il contenuto empirico delle teorie e la loro capacità di dar conto dei fenomeni. Inoltre, a seconda che il disaccordo verta sul primo o sul secondo gruppo di assunzioni, la controversia risulterà più o meno profonda, sfociando nel primo caso in un radicale rinnovamento di una disciplina, o persino nella nascita di una nuova scienza. È proprio il coinvolgimento (e la messa in discussione) delle assunzioni di sfondo che rende le controversie scientifiche particolarmente feconde: “Se un nuovo candidato alla funzione di paradigma – scrive Thomas Kuhn – dovesse essere giudicato fin dall’inizio soltanto dal rigido punto di vista della sua relativa capacità nel risolvere problemi, le scienze subirebbero un numero molto minore di rivoluzioni fondamentali[5].

Senza riandare a casi di studio classici, due esempi novecenteschi ci permetteranno di illustrare sommariamente alcune caratteristiche generali delle controversie scientifiche. Nell’ambito della fisica delle particelle una controversia ben nota e documentata[6] è quella che ha contrapposto, negli anni Sessanta del secolo scorso, la Teoria Quantistica dei Campi (TQC) e la Teoria della Matrice S (TMS). Il problema sul tappeto era la comprensione di una delle forze fondamentali della natura, la forza forte, responsabile della struttura nucleare e delle interazioni riguardanti una classe molto ampia di particelle, gli adroni. La TQC, forte del successo ottenuto un decennio prima nella descrizione delle interazioni elettromagnetiche, si proponeva di spiegare le interazioni forti in termini di particelle elementari, non ancora individuate. La TMS, dovuta principalmente al fisico americano Geoffrey Chew, mirava invece a predire tutti i processi forti a partire da alcune proprietà generali postulate per la matrice S (l’insieme delle probabilità di transizione dallo stato iniziale allo stato finale di un processo).

I due programmi di ricerca differivano sotto molti punti di vista[7]. Mentre la TQC ipotizzava che esistessero campi fondamentali non osservabili corrispondenti a particelle elementari (a partire dalle quali si sarebbero potute costruire le particelle composte), la TMS poneva come proprio fondamento i processi e le grandezze osservabili, e trattava tutte le particelle allo stesso modo, come oggetti composti. Chew giustificava filosoficamente la TMS sulla base del principio di ragion sufficiente (“Se è possibile calcolare la matrice S senza distinguere delle particelle elementari, perché introdurre tale concetto?”) e usava una metafora politica – “democrazia nucleare” – per indicare la propria visione “egualitaria” delle particelle. Più che i risultati delle due teorie, gli elementi di contesa riguardavano le ontologie, i metodi, i criteri di valutazione e gli obiettivi stessi della fisica teorica delle alte energie. La controversia durò relativamente poco, all’incirca un decennio, e si esaurì per due ragioni: da un lato, perché la TMS non riuscì a realizzare il proprio ambizioso programma, dall’altro perché furono identificate le particelle elementari dell’interazione forte e venne formulata la loro teoria dei campi. L’esito del confronto fu un generale avanzamento delle conoscenze, perché il paradigma vincente (la TQC) ne uscì rafforzato, e quello perdente (la TMS) diede comunque utili indicazioni fenomenologiche, sfociando infine in un programma di ricerca del tutto insospettato, la teoria delle stringhe.

Alcune controversie scientifiche si protraggono per tempi molto lunghi e segnano profondamente il corso di una disciplina. È il caso, nell’ambito delle scienze della Terra, della controversia tra la dottrina della permanenza (l’idea che la geografia del pianeta non abbia subito sostanziali modifiche dopo la solidificazione della crosta terrestre) e la teoria della deriva dei continenti, formulata dallo scienziato tedesco Alfred Wegener nel 1912. Il dibattito tra fissismo e mobilismo durò mezzo secolo, concludendosi infine con il successo della teoria di Wegener, che assunse la forma più sofisticata della tettonica a zolle, uno dei pilastri dell’attuale geologia.

Come ha mostrato lo storico della scienza Marco Segala in un approfondito studio sull’argomento[8], a confrontarsi furono due concezioni diverse (sul piano metodologico e assiologico) della ricerca in geologia, inserite in un’accesa dialettica tra comunità scientifiche, tradizioni nazionali e gruppi disciplinari. La teoria di Wegener presentava pregi e difetti, non diversamente dalle teorie permanentiste; la posizione dei singoli scienziati, tuttavia, non fu determinata solo da una valutazione comparativa dei successi e degli insuccessi, ma da una serie di fattori attinenti alle assunzioni di sfondo: per esempio, l’importanza attribuita – per inclinazione personale o per aderenza a una certa tradizione – alle sottodiscipline (Paleogeografia, Geodesia, Geofisica, Climatologia, ecc.) che sembravano sostenere o contraddire i due paradigmi.

Durante il suo svolgimento, una controversia scientifica non è sempre percepita come un fatto positivo da tutti i contendenti. Così è accaduto nel caso della teoria di Wegener. Mentre alcuni degli scienziati coinvolti ritenevano che il conflitto delle idee fosse comunque fecondo e portasse a una migliore comprensione dei fenomeni considerati, altri pensavano che le energie dissipate nella discussione fossero sottratte al progresso del sapere, e vedevano il rischio dell’improduttività e della stagnazione. Ma, a posteriori, la lunga e divisiva controversia che oppose mobilisti e fissisti diede un contributo cruciale alle scienze della Terra, fornendo alla teoria vincente una base empirica solida e capace di abbracciare ambiti fenomenologici e disciplinari prima d’allora separati. “Il progresso della conoscenza – conclude Segala – passa anche attraverso la controversia e lo stesso aspetto dinamico della creatività scientifica avrebbe un’altra fisionomia se di essa si facesse a meno. Attesa e paventata, amata e odiata, la controversia è un momento essenziale di quell’impresa cognitiva che chiamiamo scienza[9].

Nel corso degli ultimi decenni è progressivamente cresciuto l’impatto sociale delle controversie su temi scientifici, le quali occupano ormai una frazione rilevante del dibattito pubblico. Ma molte delle cosiddette “controversie” scientifiche su cui i media accendono periodicamente i loro riflettori sono in realtà pseudocontroversie, riguardanti questioni che vedono, da una parte, un larghissimo consenso (fondato su fatti ed evidenze) nella comunità scientifica, dall’altra, opinioni minoritarie o addirittura isolate di soggetti portatori di precisi interessi. Quella che viene messa in scena è dunque una finzione, che è stata parodisticamente riassunta così: “Il matematico dice che 2 + 2 = 4, l’esponente del Fronte di Liberazione Duodecimale sostiene che 2 + 2 = 5, il moderatore conclude che 2 + 2 vale qualcosa come 4,5 ma il dibattito resta aperto[10].

Una delle più perniciose pseudocontroversie degli ultimi anni, coloratasi spesso di tinte politiche, è quella sulla presunta correlazione tra il vaccino trivalente MPR (contro morbillo, parotite e rosolia) e l’autismo. La storia ha avuto inizio nel 1998 quando la prestigiosa rivista medica The Lancet pubblicò un lavoro del britannico Andrew Wakefield, in cui si presentavano alcune evidenze, rivelatesi poi non solo infondate, ma false, di un possibile nesso causale tra il vaccino e una serie di disturbi di tipo autistico. Sebbene la ricerca di Wakefield fosse apparsa subito metodologicamente debole e numerosi studi avessero smentito i suoi risultati, le vaccinazioni in Gran Bretagna subirono un drastico crollo, con una conseguente epidemia di morbillo e addirittura alcuni decessi. L’atteggiamento dell’opinione pubblica fu molto influenzato dal modo in cui la questione era stata trattata dai mezzi di informazione. “Nel tentativo di offrire un quadro equilibrato – ha scritto l’Economiste di intrattenere il pubblico con un confronto verbale vivace, i programmi di attualità contrapposero schieramenti di opinione opposta. In un angolo c’erano gli esperti sanitari che sostenevano il vaccino. Nell’altro c’erano medici carismatici o genitori convinti che il vaccino avesse fatto diventare i loro figli autistici”.[11]

La percezione del pubblico, nel migliore dei casi, era che esistessero due posizioni scientifiche contrapposte ma paritarie, e che nell’incertezza fosse prudente evitare la vaccinazione. Titoli giornalistici del tipo “Il dibattito sulla vaccinazione si intensifica mentre dilaga il morbillo” rafforzavano questa sensazione diffusa, attribuendo legittimità a un confronto che, semplicemente, non aveva ragione d’essere. Inoltre, poiché il vaccino era somministrato in strutture pubbliche, alcuni politici e giornali di destra cavalcarono l’allarmismo per attaccare le politiche sanitarie governative. Questa coloritura politica si è trascinata fino a oggi e ha assunto toni accesi soprattutto negli Stati Uniti, dove conservatori del Tea Party e candidati repubblicani alla presidenza hanno continuato a fare dichiarazioni scientificamente infondate sui vaccini, appellandosi a una presunta “libertà di scelta delle famiglie”, che, come si è detto, ha mietuto vittime e rischia di far ricomparire malattie che erano state debellate.

La pseudocontroversia per eccellenza del tempo presente riguarda il cambiamento climatico e verte, come è noto, su tre questioni: 1) la realtà, 2) l’origine antropica, 3) gli effetti dell’aumento della temperatura media sul pianeta. Dopo una fase iniziale – negli anni Ottanta – di vero dibattito, da un paio di decenni a questa parte la comunità scientifica ritiene che il cambiamento sia un dato di fatto e che esso sia attribuibile non a cause naturali ma all’azione dell’uomo. Alcuni sondaggi mostrano che la quasi totalità degli esperti di Fisica dell’atmosfera concorda su questi punti. Sebbene nella scienza non valga ovviamente il principio di maggioranza, una così ampia convergenza di vedute è paragonabile a quella che si registra per tutte le ipotesi e teorie ritenute ragionevolmente appurate e non più oggetto di controversia. A un tale grado di consenso tra gli specialisti, tuttavia, non corrisponde un’analoga uniformità di opinioni presso il pubblico: un’indagine condotta nel 2015 dal Pew Research Center ha mostrato che circa la metà del pubblico americano non crede che il cambiamento climatico sia dovuto ad attività umane, e il 25% nega l’evidenza stessa di un aumento delle temperature[12]. L’ampio divario tra le opinioni degli esperti e le opinioni del pubblico è probabilmente il risultato di campagne di informazione che hanno prodotto una vera e propria illusione ottica, instillando l’idea infondata che nella comunità dei climatologi esista una grande diversità di posizioni.

In un importante libro del 2010, Merchants of Doubt, gli storici della scienza Naomi Oreskes e Erik Conway hanno documentato il modo in cui un ristretto manipolo di scienziati, legati a precisi interessi industriali e a centri ideologici della destra conservatrice, è riuscito, nel corso di alcuni decenni, a occupare la scena pubblica con le proprie tesi negazioniste in materia di pericolosità del fumo, di piogge acide, di buco dell’ozono e, infine, di cambiamenti climatici[13]. Degno di nota è il fatto che a intervenire su tutte le questioni sono stati sempre gli stessi personaggi, nessuno dei quali, peraltro, specialista dei problemi in oggetto.

L’azione di questi “mercanti del dubbio” è stata favorita e amplificata dai media, che hanno concesso loro uno spazio sproporzionato, per mera convenienza o per un malriposto spirito di “imparzialità” ed “equilibrio”. Un confronto aspro tra avversari rende in effetti molto di più, sul piano giornalistico, del consenso, e viene quindi inscenato anche quando non corrisponde allo stato dell’arte in un certo campo del sapere. Un rapporto del 2011 sulle trasmissioni scientifiche della BBC, commissionato dalla stessa azienda televisiva pubblica al genetista Steve Jones, ha messo in guardia proprio da questo tipo di pratica – dal cercare a ogni costo un contraddittorio che falsa la realtà.[14] La scienza si nutre di disaccordi, ma raggiunge in molti casi un consenso, basato su evidenze. Sarebbe un errore confondere la negazione dell’evidenza con lo scetticismo. Quest’ultimo fa parte integrante del bagaglio intellettuale dello scienziato, ma lo scettico, a differenza del negazionista, è pronto a cambiare le proprie convinzioni di fronte a nuovi fatti e a nuovi elementi di prova. Un altro grosso equivoco che alimenta le pseudocontroversie e viene abilmente usato da chi le sfrutta per propagandare false verità concerne l’affidabilità dei risultati scientifici. Si è erroneamente portati a credere che la scienza fornisca certezze assolute, e se non lo fa la si giudica difettosa: la mancanza di certezza si traduce allora nella facoltà di dubitare di tutto. Si tratta, però, di una visione distorta delle cose: la scienza produce sempre risultati affetti da incertezze (che vengono valutate), e le sue previsioni “ragionevolmente certe” sono quelle il cui grado di incertezza – comunque non nullo – è ridotto al minimo.

Possiamo dire, in conclusione, che se le vere controversie scientifiche oppongono, in una cornice dialettica fruttuosa, paradigmi e programmi di ricerca differenti, le pseudocontroversie oppongono la scienza all’antiscienza (nelle sue varie forme). Le prime sono strumenti di crescita della conoscenza; le seconde sono spie del malessere culturale di una società che spesso stenta a fare i conti con le pratiche e le regole scientifiche.

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n. 25/26 – “Il volo della ragione”

Note

[1] G. Giorello, Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, Mondadori, Milano, 1985.
[2] G.W. Leibniz, Sulla scienza universale o calcolo filosofico, in Scritti di logica, a cura di F. Barone, vol. 1, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 172.
[3] J.S. Mill, Saggio sulla libertà, a cura di G. Giorello e M. Mondadori, Il Saggiatore, Milano, 1981, p. 63.
[4] A. Baltas, Classifying Scientific Controversies, in Scientific Controversies. Philosophical and Historical Perspectives, a cura di P. Machamer, M. Pera e A. Baltas, Oxford University Press, Oxford, 2000.
[5] T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978, p. 190.
[6] Vedi, per esempio, Scarpa F.M., Una rivoluzione mancata, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[7] T.Y. Cao, Conceptual Developments of 20th Century Field Theories, Cambridge University Press, Cambridge, 1997, pp. 220-229.
[8] M. Segala, La favola della terra mobile. La controversia sulla teoria della deriva dei continenti, Il Mulino, Bologna, 1990.
[9] M. Segala, op. cit., p. 285.
[10] S. Jones, A review of the impartiality and accuracy of the BBC’s coverage of science, BBC Trust, 2011.
[11] Politics and vaccinations. What experts say, and what people hear, “The Economist”, 5 febbraio 2015. La stessa tragica farsa di cui l’Economist parla al passato (per ciò che concerne la Gran Bretagna) è andata in onda il 12 maggio 2016 nel programma “Virus” di Rai 2, in cui è stato dato ampio risalto alle deliranti tesi anti-vaccini di un personaggio dello spettacolo, mentre sono state relegate negli istanti finali le argomentazioni di un virologo.
[12] Pew Research Center, Public and Scientists’ Views on Science and Society, January 2015.
[13] N Oreskes e E.M Conway., Merchants of Doubt, Bloomsbury Press, New York, 2010.
[14] S. Jones, op. cit.

Questo serve anche per un dibattito sull’uso spropositato che si fa della parola Scienza. La Scienza ci dice, la Scienza ha dimostrato.
In ambito colloquiale ha senso, ovvio, ma in realtà si sta parlando di branche differenti: fisica, biologia, logica e quanto altro. E non tutte usano lo stesso paradigma di ricerca, tanto che alcune materie - come la psicologia - sono probabilmente di confine.
Le Scienze satte sono in generale astratte, mentre quando si ha a che fare coi dati, le cose cambiano. Come sono raccolti? Sono affidabili? Come si devono interpretare?
Una teoria ha certe condizioni al contorno, ma se togliamo qualcosa, siamo ancora in ambito rigoroso? La risposta è “dipende” e questo mette in difficoltà chi vuole usare una regola unica.

C’è il metodo (e anche qui si dibatte, esiste l’epistemologia per questo, o filosofia della scienza), ci sono regole accettate o meno (la deduzione è OK, ma l’induzione e l’abduzione? Sono validi metodi logici? In teoria no, ma li usiamo lo stesso… ), c’è il consenso degli studi (che riguarda interpretazioni e persone coinvolte in esperimenti multipli).

Quando si dice Scienza, soprattutto con la S maiuscola, bisogna in realtà tenere a mente parecchie cose.

Concordo in pieno (ovviamente). Niente di peggio che restare ancorati per principio persino di fronte alle evidenze. Che poi, certezze assolute no, ma alta probabilità sì. Sempre che nelle ricerche a supporto:

  1. i dati siano stati raccolti bene (un campionamento ben fatto non è tanto banale).
  2. le successive elaborazioni siano state oneste (e scevre da orrori statistici).
  3. le ricerche stesse risultino replicabili e replicate da fonti indipendenti e (possibilmente) anche contrarie alla teoria che i risultati sembrano sostenere (per il principio per cui, se il tuo nemico ottiene lo stesso esito a te favorevole, di sicuro non ha truccato i dadi[1] per darti ragione. Perché truccare “i dadi” è un attimo, altro che partite di scacchi online).

Avrei diversi esempi attuali, ma si andrebbe fuori tema nel giro di un niente.


  1. proprio nel senso dei dadi da gioco ↩︎

A questo proposito, sono rimasto sopreso di scoprire che anche tra le prove scientifiche in senso stretto ce ne sono alcune più forti di altre, e c’è addirittura una gerarchia ben organizzata di queste. Lascio il link all’articolo specifico, ma anche il resto del blog è molto interessante:

The hierarchy of evidence: Is the study’s design robust?

Un messaggio è stato unito a un argomento esistente: Covid e vaccini per il covid - un ring per i più cocciuti

A parte che dirottare tutti discorsi su un unico argomento significa voler monopolizzare, qui non capisco cosa vuoi dire qui. Sinceramente, forse stiamo cercando di trovare inghippi in qualcosa (studi, eventi, metodologie) di cui né tu né io siamo esperti .
Che il virus fosse isolato e “noto” alla data del.marzo 2020 non mi stupisce, sinceramente. Davvero si sta per sconfinare nel complotto globale dei vaccini.

Non dirlo in giro: ho fatto il ricercatore. Poco, ma abbastanza da saper valutare un certo gruppo di studi, quello con cavie umane.

A questo proposito, ho spostato altrove quel commento, così qui non disturba (a parte che tu passi per indemoniato) e di là calza (a parte che sembro ancora più sciroccato io che lo tiro fuori dal nulla).

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Perché essere sorpresi, alla fine? Pensi che quel dice il cugino è uguale alla verifica a doppio cieco? :yum::yum::yum::poop::poop::poop:

Però anche quella piramide, qualche parola extra andrebbe spesa. Perché una prova più forte dell’altra? Vero che c’è qualche spiegazione ma la questione è in realtà l’inferenza logica che si può ottenere.
Ogni prova ha un sottotesto logico che va (andrebbe) compreso.

La logica è una brutta bestia, e se la deduzione non ha problemi (regola+caso=effetto), l’induzione e l’abduzione sono assai infidi e quindi niente regola e quindi niente deduzione :scream::cold_sweat:
Il link sopra parla delle debolezze dell’abduzione (considerata una scommessa da Pierce) mentre Locke già faceva notare le debolezze dell’induzione, ossia trovare una regola da caso+effetto. L’esempio più famoso era la frase: il fatto che il sole sorga ogni giorno non significa che sorgerà anche domani. Se la frase suona strana o impossibile, e a me pareva sappiatelo!, ci sono i libri di Nicholas Taleb a spiegarla per bene (visto @happycactus ? Mi ci è voluto tempo, ma ho sempre tenuto in conto i consigli e spero di metterli a frutto).

Quindi? A parte che per “fare scienza” bisogna conoscere epistemologia e semiotica (alme o se vogliamo fare bene le cose), ci vogliono alcune deroghe e condizioni. Leggi assolute smettono di esistere a favore di modelli funzionanti localmente (anche la “legge di gravità” smette di essere valida in certi ambiti, quindi non è una legge) e quello che per me è scienza per te magari è troppo lasco o troppo stretto.
Ergo si fissano le regole, si instaura un metodo (o meglio una piramide di metodi) e poi si avanti

Facciamola facile facile.
Domanda di esame: “quanti cigni devi osservare per poter escludere che esista un cigno nero? 1000 bastano? un milione? se vedi 10 milioni di cigni e sono tutti bianchi, puoi escludere che esista al mondo un cigno nero?”

La risposta, ma con una precisazione e un limite, esiste, sappiatelo. Ma non vi piacerà.

Se si vuole costruire una regola generale, ossia operare l’induzione, essa è una inferenza indebita (già detto prima) perché l’assenza di prove non è prova di assenza (usata anche nei dibattiti sulla storicità del Cristo, se interessa) ma possiamo costruire un modello con un certo grado di attendibilità, in condizioni circoscritte (es. Tempo e spazio)

yes.
E infatti la risposta corretta parte da una domanda: l’intera popolazione dei cigni, al momento attuale, di quanti individui è costituta? Ecco, quello è il numero di osservazioni minimo necessarie per poter stabilire con certezza che, al momento attuale, se li osservo TUTTI bianchi, non ci sono cigni neri. Fino alla prossima nascita e senza poter dire nulla di eventuali cigni neri deceduti anzitempo e non più osservabili.

In pratica, una fetecchia scientifica.

Eppure, nel nostro piccolo, è quello che usiamo più spesso dall’alba dei tempi per sopravvivere (e infatti di base viviamo male), salvo individui dal QI superiore che fanno ragionamenti diversi e che, non sempre, ma spesso, poi li tramandano (o cercano di tramandare) agli individui con QI inferiore.

I quali, se va bene, imparano il sunto: lì succede così se parti di là (tipo e=mc2, per capirci: mica so davvero cosa vuol dire, però l’ho imparato a memoria. Pare che funzioni: passi l’esame se lo dici quando te lo chiedono).

Esistono un tot di storielle a riguardo (a parte quella dei tacchini di Russel), ma saranno elargite solo a richiesta.
Il fatto è che l’abduzione è un azzardo e l’induzione è priva di fondamento. Anche quella della gravità non è una legge, ma un modello che funziona in certi contesti.
Quello che abbiamo, sono al massimo modelli e basta.

E la teoria della relatività è nata scartando uno dei pilastri della matematica, il V postulato di Euclide, quello delle rette parallele. Senza uno dei pilastri fondamentali, è ancora scienza?
Alcuni ti diranno di no e altri di sì. Ma sono cose da mettere in chiaro perché non esiste La Scienza.

Scienza relativa. Come in “il caso speciale della geometria quotidiana, che all’infinito non ci va”, e che ti consente di far correre un treno sui binari. Sennò vai a piedi e bon.