Milano, gli anni 70 e Diabolik, parla Andrea C. Cappi

Andrea Carlo CappiAndrea Carlo Cappi (alias François Torrent, Alex Montecchi ma anche Andrew Cherry) in decine di anni di percorso narrativo ha scritto davvero tanto. Parliamo di oltre cinquanta opere pubblicate tra romanzi, saggi, antologie di racconti, sceneggiature di noir, spy-story, thriller e storie di avventura, centinaia di articoli come d’altronde, tanti sono gli articoli scritti su di lui e le interviste rilasciate per tv, radio, giornali, blog o riviste. Da qualche settimana l’affermato e prolifico scrittore milanese ha aderito alla World Science Fiction Italia, felici per questa sua scelta lo accogliamo nel nostro sodalizio con la seguente conversazione di benvenuto.

Sei nato a Milano nel 1964. Per cui fai parte di quella generazione (ne faccio parte anche io che sono dello stesso anno) che per ovvi motivi non ha partecipato alle battaglie della fine degli anni ’60, della fantasia al potere e a quelle degli Anni di piombo. Abbiamo invece attraversato oramai in piena consapevolezza gli anni ’80, quelli della cosiddetta stagione del riflusso e dell’edonismo reganiano: come li hai vissuti da liceale a Milano? E cosa facevi dal punto di vista dell’impegno culturale e/o politico?
In realtà le mie prime due tappe di formazione risalgono al 1970, tra letture e cinema; e al 1973, quando per la prima volta misi piede in Spagna, incontrando altre lingue e culture non solo iberiche. La terza tappa è quando sono entrato al liceo nel 1978, ma negli anni successivi l’unico “impegno” possibile fu quello di… sopravvivere al liceo. Frequentavo lo scientifico noto a Milano come “Lager Einstein” perché imponeva ritmi di studio totalizzanti. Ma sono in debito con l’insegnante di inglese, grazie alla quale imparai a fare il traduttore, e con quella di lettere che consolidò la mia pulsione a scrivere. Quanto alla politica, da sempre anche in ciò che scrivo sostengo con forza le mie idee (democrazia, diritti umani e civili…), pur senza colori o etichette.

Pensavi già di diventare scrittore? In quale genere di prosa ti cimentavi?
Già abbozzavo raccontini tra mystery e horror dalle medie. Come avido lettore di Giallo Mondadori, Segretissimo, Urania e collane affini, in quel periodo ampliai gli orizzonti provando a scrivere spy-story e fantascienza.

Ma come sei giunto alla narrativa? Attraverso quali esperienze e quali canali? E come sei arrivato alla scrittura thriller e avventurosa?
Una delle mie letture preferite, oltre a tantissimi romanzi di genere, erano le antologie di racconti presentate da Hitchcock: un’ottima scuola per le storie brevi. Fu grazie a una serie di RadioRAI, ispirata proprio a quel tipo di narrativa, che vinsi un concorso con un racconto e fui arruolato per scrivere soggetti originali. Senonché dall’alto si decise di sospendere il programma e io passai in pochi mesi da “niente” a “professionista” a “niente”, di nuovo, senza vedere un soldo. Ma con quel biglietto da visita mi presentai al Giallo Mondadori e ricominciai da zero. Fu allora che entrai nel “movimento” della Scuola dei Duri, fondato a Milano da Andrea G. Pinketts (ispirandosi alla hardboiled school dell’era dei pulp USA) il cui obiettivo era usare il noir per esplorare la realtà. Coincideva con il mio intento di farlo con tutta la letteratura di genere.

E così hai potuto pienamente mettere a frutto la tua creatività attraverso saghe e personaggi…
Sì. Venne dapprima fuori la mia saga noir-spionistica (in parte pubblicata da Segretissimo Mondadori con lo pseudonimo “François Torrent”), i romanzi originali di Martin Mystère (uno dei quali Premio Italia 2018 per il fantasy), i romanzi originali di Diabolik & Eva Kant (che hanno preceduto le novelization), qualche incursione nello storico, nell’horror-erotico e nella fantascienza (come “LUV”, romanzo fanta-noir scritto a quattro mani con Ermione) e decine di racconti di ogni genere.

Tra i tuoi eroi come papà/inventore in quale ti ci ritrovi maggiormente ed eventualmente in quali peculiarità?
Scelta difficile. Il Cacciatore di Libri sono io quando facevo, appunto, il “cacciatore di libri”, mentre padre Stanislawsky, agente segreto del Vaticano del futuro, è una mia versione più spudorata. Carlo Medina, killer professionista, sono sempre io in chiave più cinica. Non meno “autobiografico” è Toni Black, detective nero spagnolo, che riflette la mia vita nel luogo in cui sono ambientate le sue storie. Ma qualcosa di me, tra insicurezze che abbiamo e sicurezze che vorremmo avere, è presente anche nelle mie numerose protagoniste femminili – Nightshade, Sickrose, Rhona la vampira… – anche se ognuna di loro ha una “interprete ufficiale” che ho in mente quando ne scrivo. La cosa che mi sorprende è che mi ritrovo anche in molti tratti comportamentali di Martin Mystère, che peraltro derivano da quelli del suo creatore Alfredo Castelli. E, infine, mi rispecchio pure a turno in Diabolik, Eva Kant e l’ispettore Ginko.

Soffermiamoci su quest’ultimo punto. Hai scritto le trame dei film di Diabolik dei Manetti Bros. Che relazione hanno con i film? Come ti sei trovato a lavorare con i registi Marco e Antonio Manetti?
Ho scritto le novelization di entrambi i film e spero di poter scrivere anche quella del terzo. Il processo creativo cinematografico partiva dalle sceneggiature di fumetti anni ’60 e io mi sono inserito solo nella fase successiva: il passaggio dal film al romanzo, esperienza che aspettavo di vivere da tempo. La novelization è una forma di narrativa molto particolare che consiste nel raccontare la vicenda come se fosse stata concepita per essere un libro, quindi con una forte componente creativa. Chi ha letto i due romanzi sa che accadono più cose di quante se ne vedono nello schermo, perché chi legge si pone più domande sui retroscena dei personaggi e delle loro azioni prima, durante e dopo ogni singola scena. Non so dire quale dei due film ho preferito: conoscendo bene le storie originali, in tutti e due i casi sono stato deliziato da come i Manetti le hanno fatte diventare cinema. Sul piano lavorativo, per il primo film mi sono basato sulla sceneggiatura, mentre per il secondo abbiamo provato un metodo nuovo e molto più coinvolgente: ho visto anche un pre-montaggio del film che mi ha permesso di assorbire più sfumature. Forse per i motivi generazionali di cui sopra, i Manetti e io ci siamo trovati in perfetta sintonia.

Sempre sotto l’aspetto narrativo nello stile e nei temi quale differenza trovi tra i giovani degli anni ’80 (tu in primo luogo) e quelli odierni? Come sono cambiati i modelli?
Sotto molti aspetti, non noto tante differenze. Rivedo le stesse passioni, a volte gli stessi errori, e mi riconosco spesso in loro. Va detto però che la mia generazione e dintorni – per limitarci alla narrativa di genere – ha avuto accesso e tratto ispirazione dal vecchio pulp e dai fumetti, ma anche da film classici visti in tv, da serie televisive anni ’60, da prodotti e sottoprodotti anni ’70 e ’80… cioè la base di quanto si vede in molte delle produzioni odierne. Temo che non tutti i giovani di oggi sappiano di questo enorme bagaglio precedente di cultura popolare, anche se la parte cinematografica oggi è più disponibile rispetto a qualche anno fa, sul mercato video o sulle piattaforme.

Hai tradotto importanti scrittori tra cui Arthur Conan Doyle, Raymond Chandler, Ian Fleming, Clive Cussler, i romanzi su James Bond, quale più ti ha emozionato e chi vorresti tradurre ancora?
Sono tantissimi: per esempio gli amici Jeffery Deaver e Douglas Preston; altri due amici purtroppo scomparsi come Stuart M. Kaminsky e Donald E. Westlake alias Richard Stark. Conobbi di persona anche Clive Cussler, ma per fortuna il suo franchise regge con grande professionalità. Rimpiango, abbandonato dall’editoria italiana, James Bond, che oltretutto mi procurò anche qualche fan: cosa rara per un traduttore, ma che si ripeté con i romanzi di Janet Evanovich e con quelli del bravissimo Joe Hill. Sono molto affezionato a Raymond Benson, altro amico personale, conosciuto come autore di 007 e poi rivelatosi maestro del noir. Mi mancano molti grandi autori (e amici) della novela negra spagnola, i cui libri restano inediti in Italia. Ricordo poi con piacere quando scoprii e tradussi Jeff Lindsay con il suo primo Dexter, non ancora serie tv. Ce ne sarebbero molti altri da citare. Fuori dalla narrativa di genere, uno dei più emozionanti è stato, qualche anno fa, Trevor Noah.

Il Premio Torre Crawford, del quale sei direttore artistico e il cui bando scade il 30 aprile prossimo, quest’anno ha come tema “Uomo in mare!”, vi siete ispirati ai romanzi di Conrad. Visto che siamo alla IV edizione, puoi tirare un bilancio del Concorso?
Ci siamo ispirati, come tutti gli anni, a una citazione di Francis Marion Crawford, lo scrittore americano che fu inquilino dell’antica torre di San Nicola Arcella (Cosenza) cui diede il nome e che oggi ispira il Premio Torre Crawford (www.premiotorrecrawford.it) e il Festival omonimo. “Uomo in mare!” è il titolo di un suo celebre racconto, che apparirà in una mia traduzione nella prossima antologia del Premio. Ma Joseph Conrad, non a caso, era suo amico. La qualità è davvero elevata: per l’antologia dei racconti finalisti possiamo permetterci di selezionare il meglio, che siano opere di esordienti, emergenti o emersi/e. Come giuria esaminiamo tutto in forma anonima ed è una soddisfazione scoprire alla fine tanto nomi già noti, quanto nomi (almeno a noi) sconosciuti. Dopo la prima edizione, legata a un particolare racconto di Crawford ambientato proprio alla Torre, abbiamo tolto qualsiasi vincolo a un particolare genere letterario. Ma la piacevole sorpresa è che il numero di finaliste è pari a quello dei finalisti, anche quando la loro scelta è di generi che per qualche assurdo pregiudizio si ritiene siano solo appannaggio maschile.


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